
Elia Bonacina è una di quelle persone capaci, con estrema naturalezza e sincerità, di trasmettere grande energia e voglia di fare. Ascoltarlo parlare della storia di Bonacina 1889, la family company di cui è Amministratore Delegato e Presidente, è una ventata di positività e determinazione, oltre che un viaggio appassionante alla scoperta di un’eccellenza del design Made in Italy. I mobili e le sedute in giunco e midollino realizzati ancora oggi interamente a mano nella sede di Lurago d’Erba, in Brianza, hanno arredato i salotti di aristocratici e grandi industriali di tutto il mondo, arrivando persino alla Casa Bianca e, grazie alle loro forme innovative, sono esposti in alcuni dei più prestigiosi musei internazionali, dalla Triennale di Milano al MoMA di New York.
Bonacina 1889 è un pezzo di storia dell’imprenditoria comasca e italiana: puoi raccontarci le tappe principali di questi 136 anni?
L’azienda è stata fondata nel 1889 dal mio bisnonno, Giovanni Bonacina, quando aveva solo ventun’anni. Il bisnonno era un brianzolo doc e ha avuto la fortuna di avere dei parenti importanti nella Curia che, ritenendolo un ragazzo intelligente, lo hanno fatto a studiare a Milano. In Europa è stato tra i primi – se non il primo – a intuire le potenzialità del giunco e del midollino. Si tratta di un materiale incredibile, un legno massello che non ha niente a che vedere con il vimini, un’erba palustre che cresce nei fiumi a letto largo anche qui in Europa e serve, ad esempio, per realizzare i cestini del pane. Il giunco è come il noce canaletto e per i nostri prodotti selezioniamo la qualità migliore proveniente dalle migliori foreste in Indonesia, in Malesia, nelle Filippine. Giovanni è uno dei primi mobilieri in assoluto in Brianza, a fine Ottocento tra i pionieri del design oltre a lui si potevano citare pochi altri nomi, tra cui Giorgetti e Matteo Grassi. Dotato di un’indole molto creativa, decide di firmare una collezione di arredi, realizzando un catalogo e comprando la materia prima dall’Asia per poi lavorarla qui in Brianza. In quel periodo l’Italia cominciava a trasformarsi in un Paese industriale: nel 1899 viene fondata la Fiat ma non c’erano ancora la borghesia o gli imprenditori a cui vendere un prodotto così sofisticato. è allora che Giovanni ha un colpo di genio: essendo una persona distinta e acculturata, avendo studiato a Milano e conoscendo bene il francese che all’epoca era la lingua internazionale, decide di proporsi alle famiglie nobili locali. Comincia ad arredare le case delle famiglie nobili della Brianza, poi arreda le loro dimore milanesi, fino a lavorare per le famiglie aristocratiche tedesche e francesi con cui i nobili brianzoli sono imparentati. Giovanni comincia così ad esportare i suoi prodotti e prima dello scoppio della Prima guerra mondiale esportava già il 60% della sua produzione, aveva tre fabbriche e un centinaio di dipendenti. Giovanni ha undici figli, tra maschi e femmine, ma a un certo punto fa testamento e scrive: “Lascio tutto quello che ho a mio figlio Vittorio, perché agli altri ho già dato abbastanza in vita”. Si tratta già di un particolare esempio di cambio generazionale: il bisnonno va a selezionare tra i suoi figli quello più adatto per mandare avanti l’azienda e agli altri, che sostanzialmente aveva già sistemato, sceglie di non lasciare una quota, per evitare che l’impresa si bloccasse. In quegli anni l’azienda aveva bisogno di una ristrutturazione e di un rilancio. Mio nonno Vittorio e sua moglie Carla sono i primi a creare una connessione tra il mobiliere brianzolo e gli architetti, quando ancora non esisteva il concetto di design e di designer. Vittorio, allora quarantenne, comincia a frequentare l’ambiente del Politecnico di Milano, dove conosce Gio Ponti, Franco Albini, Marco Zanuso, che all’epoca erano giovani studenti di architettura sconosciuti ma che poi sarebbero diventati i grandi maestri del design del Novecento. Il nonno invita a casa sua questi studenti, mangia con loro, li fa entrare in contatto con gli artigiani e insieme in laboratorio sperimentano idee, forme, dimensioni. Da tutti i prototipi nati da queste sperimentazioni, che a volte erano decine, sono state create sedute che ormai fanno parte della storia del design. Poi arriva il momento dei miei genitori, Mario e Antonia. Mio padre ha studiato a Firenze, è uno dei primi laureati in design industriale in Italia e al suo arrivo succede una cosa interessante: dal bisnonno fino al nonno in Bonacina si producevano prodotti decorativi stile impero, poi con il nonno, amico di Ponti e Albini, l’azienda si concentra su prodotti modernisti, al passo con la rivoluzione industriale in atto nel Paese, e negli anni 80 e 90 del secolo scorso le grandi famiglie nobili europee cedono il passo alle grandi famiglie industriali, come gli Agnelli. I decoratori Renzo Mongiardino e Federico Forquet allora propongono a mio padre di recuperare i prodotti del bisnonno e di rifarli per le ville dei grandi industriali europei, i Falck, i Rotschild, i Thyssen, i Mondadori, che in realtà sono ancora in stile impero. Gianni Agnelli, sposato con la nobile Donna Marella, principessa di Napoli, era una delle persone più ricche al mondo, ma doveva spesso chiudere accordi con persone molto più ricche e potenti di lui. Qual era il suo asset per posizionarsi in vantaggio rispetto a loro? Avere un grande stile, un grande gusto. Renzo Mongiardino realizzava così delle case pazzesche, con i migliori arredi fatti dai migliori artigiani italiani e quadri incredibili alle pareti. Donna Marella andava a chiudere l’anello creando un ambiente iper raffinato, con personale che cambiava d’abito tre volte al giorno e serviva il cibo indossando guanti bianchi. Accadeva così che quando venivano i Ford o i Kennedy erano loro a sentirsi in difetto, si sentivano di dover reverenziare Donna Marella, perché la cultura e lo stile che la famiglia Agnelli esprimeva in ogni ambiente della casa la metteva in una posizione di vantaggio. Quindi con mio padre e mia madre ripartono i prodotti del bisnonno e diventiamo quasi due aziende in una, come oggi, con un filone decorativo e un filone contemporaneo. Io entro in azienda il 2012: sotto la mia guida, Bonacina 1889 è passata da meno di mezzo milione di fatturato nel 2012 a 11 milioni dell’anno scorso e da un utile negativo a un utile del 30%. Siamo tra le 50 aziende più redditizie d’Italia nel settore del design.
Rappresenti la quarta generazione della famiglia: avete riscontrato sfide o criticità nel passaggio generazionale?
Mia nonna Carla ha iniziato ad affiancare nonno Vittorio da giovanissima, ma già con una certa esperienza, avendo la fortuna di arrivare da un’azienda di 200 dipendenti che lavorava per l’esercito ed era gestita praticamente da lei. È stata la prima amministratrice delegata donna nel mondo del design ma ha vissuto quello che capita a tanti imprenditori e imprenditrici: si è impersonificata nel suo ruolo, anche se non voleva ammetterlo. Credo che questo sia uno dei nodi più critici del cambio generazionale in Italia: dobbiamo ricordarci che non siamo unicamente quello che facciamo, siamo anche esseri umani con le nostre capacità, la nostra cultura, la nostra visione. Se io mi vedo solo come imprenditore, nel momento in cui non sono più il CEO dell’azienda o lascio il comando a qualcun altro, sono morto. Allora cosa cercherò di fare? Cercherò di non mollare mai. Bonacina era al minimo storico di fatturato, perdeva soldi ogni anno ma la famiglia per fortuna era solida. Io ero combattuto se entrare in azienda o no: dopo un anno sono diventato prima direttore generale, poi AD, in seguito ho acquistato un primo pacchetto di azioni (25%) per poi arrivare gradualmente al 90%. Sono riuscito a fare quello che la nostra famiglia ha sempre fatto ma che a un certo punto si è bloccato, cioè eleggere un capofamiglia, affidargli il pacchetto di maggioranza e il comando in modo tale che l’azienda, avendo una leadership chiara, potesse continuare a svilupparsi in modo sano e organico. Una cosa importante che tengo a sottolineare è che gli uomini della famiglia Bonacina hanno sempre lavorato in azienda insieme alle loro mogli e compagne. Oggi al mio fianco lavorano la mia compagna Elena Lazar, mia sorella Margherita e il suo compagno Andrea Tinelli: sono convinto che la bellezza della nostra impresa e dei nostri prodotti derivi anche dalla visione congiunta degli uomini e delle donne che ne hanno scritto e ne stanno scrivendo la storia.
Quali sono, a tuo parere, gli ingredienti per la longevità di un’impresa?
La leadership e il cambio generazionale sono al primo posto: se guardiamo i dati delle Camere di Commercio, notiamo che oltre l’80% delle imprese in Italia ha l’AD o il Presidente che ha più di 75 anni. Per avere un’impresa longeva, lo step numero uno è fare sempre il cambio generazionale al momento giusto. Tutte le generazioni portano una spinta, una rivoluzione: quando si capisce che questa energia sta rallentando o si sta fermando, anche per via dell’età, bisogna essere bravi a passare il testimone e, soprattutto, a dare a chi arriva la possibilità di sbagliare. Conosco imprenditori di successo, padri di miei amici d’infanzia, che raccontano sempre che per arrivare dove sono arrivati hanno commesso 50 errori. Poi il timone passa ai figli, a cui bastano due errori per venire accusati di non essere capaci di guidare l’azienda. La longevità dipende anche molto da flessibilità, innovazione e rapidità nel cambiamento: questi sono gli ingredienti che hanno sempre premiato la nostra azienda e che a mio parere premiano ogni impresa che vuole e che può fare la differenza. Il mercato e il mondo cambiano velocemente, quindi bisogna essere pronti e flessibili, non bisogna dire: “Noi facciamo così, lo sappiamo fare solo in questo modo, e basta”. Quando sono entrato in azienda e l’EBIDTA era negativo, ho cominciato a studiare tutti i bilanci del settore e mi sono accorto, con mio grande stupore, che i marchi blasonati del design in realtà non raggiungevano neanche il 10% di EBIDTA e spesso si fermavano al 5-6%. Certo, c’erano due o tre casi speciali in cui magari si arrivava anche al 17%, però la maggior parte registrava il 5-6%. Da Federlegno mi dicevano che nel nostro settore si oscilla tra 4 e 6%, ma io pensavo: “A me è stato insegnato che Cash is king: come minimo devi fare il 10% per poter dire che la tua azienda è sana, il 20% per svilupparla bene. Se fai il 30% sei tra i più bravi del tuo settore”. Credo che il grande difetto dell’impresa italiana sia che siamo produttori numeri uno di tutto, sappiamo fare tutto a qualsiasi livello qualitativo, compriamo macchinari, costruiamo capannoni, insegniamo il mestiere agli operai, creiamo dei prodotti pazzeschi e poi appena il prodotto esce dalla fabbrica, nell’80% dei casi la distribuzione è demandata a un distributore, poi ci sono gli agenti,… Noi facevamo lo sconto del 50% al distributore, poi del 10% all’agente che ci aveva presentato il distributore, etc… Identificato il problema, con la forza, la voglia e la fame che può avere solo un giovane, dalla sera alla mattina ho tagliato tutta la distribuzione e tutti gli agenti e ho assunto direttamente dei giovani a tempo indeterminato perché diventassero miei venditori diretti, soprattutto in anni in cui la mia generazione veniva assunta solo con la partita IVA. Quello è stato un grande cambiamento, anche a livello di mentalità, perché così siamo diventati un’azienda completa, capace di produrre, distribuire e comunicare il prodotto dall’interno al 100%. Con flessibilità intendo questo: quando ho capito che dovevamo prendere in mano la distribuzione lo abbiamo fatto, mentre tante aziende sono scomparse continuando a sostenere che non si poteva fare. La maggior parte dell’industria è ancora basata su questo sistema, a eccezione del comparto della moda italiana che è stato il primo a capire che, se voleva mantenere negozi di proprietà in centro città, se voleva fare pubblicità a livello internazionale, aveva bisogno di più margine, e per farlo doveva prendersi il margine che veniva regalato alla distribuzione. Questo è solo un esempio più tecnico, però spiega bene come energia, flessibilità e velocità siano fondamentali per essere longevi.
Un ruolo importante per il vostro successo deve averlo giocato anche l’essere riusciti a realizzare veri prodotti di design, capaci di superare il test del tempo…
Assolutamente. È quello il vero asset del nostro Paese, ciò che non ci potrà mai togliere nessuno. La verità è che chi realizza prodotti che possono essere replicati anche in altre parti del mondo a un costo più basso, probabilmente è destinato a sparire, invece chi offre un valore aggiunto non potrà mai perderlo. Noi oggi siamo l’unica fabbrica strutturata in Europa che fa mobili in giunco e midollino: resiste ancora qualche piccolo artigiano ma stanno scomparendo tutti, il resto viene tutto importato dall’Asia. Perché continuiamo a vendere così bene? Perché abbiamo il design italiano, la storia, la qualità, la raffinatezza, l’ampia selezione di tessuti e di colori, è questo quello che ci caratterizza. In Bonacina realizziamo i nostri mobili ancora nello stesso identico modo in cui li faceva il mio bisnonno. Quindi tutto viene fatto a mano, senza macchinari, è un lavoro super artigianale che non prevede passaggi di più persone. Esteticamente, il giunco assomiglia al bambù ma all’interno è pieno: attraverso la trafilazione otteniamo lo spaghetto o tutte le altre dimensioni che ci servono per l’intreccio. Solitamente la struttura portante dei nostri prodotti è fatta con la canna grossa e poi con lo spaghettino vengono realizzati l’intreccio e tutti i lavori necessari per completare una seduta. I nostri prodotti sono esposti in più di sette musei nel mondo e citati in molti libri di architettura e di design, perché hanno sempre avuto forme innovative e sono belli e attuali ancora oggi dopo 70 anni.
Bonacina 1889 è stata definita un esempio di “restartup” di successo: cosa ha significato per voi questo processo e in che modo lo avete affrontato?

È stato il Professor Stefano Micelli, ordinario di Economia alla Ca’ Foscari di Venezia e autore del libro Futuro artigiano, a identificare quello che ho fatto in Bonacina 1889 come la restartup di un’azienda già esistente. Si tratta di un concetto interessantissimo su cui continuiamo a lavorare. Micelli spiega che a un certo punto le aziende, probabilmente per incapacità di comprendere il mercato in quel momento oppure incapacità di sostituire il personale agée con menti più fresche, arrivano a dei momenti in cui devono essere “restartuppate”. Da grande appassionato di Silicon Valley e di startup, quando l’azienda era al minimo storico e l’EBIDTA era negativo, sostanzialmente, senza accorgermene, è come se avessi rifondato l’impresa. Oltre ad aver cambiato le logiche di distribuzione, ho creato un dipartimento finanziario strutturato, di ispirazione americana, seguendo il principio per cui sono i dati a guidare le scelte e serve un’analisi precisa e concisa dell’azienda, bisogna conoscerne costo industriale, costo di produzione, distribuzione e tutti gli altri dati, dai colori più venduti a quelli meno popolari. Poi ho creato il dipartimento marketing e un sistema di controllo sulla produzione, il tutto con il supporto di ventenni come me, inserendo tantissima tecnologia. 13 anni fa ho trasferito il gestionale in cloud, di modo che i nostri venditori in qualsiasi parte del mondo potessero accedervi come se fossero in ufficio. Oggi può sembrare banale ma nel 2012 nessun venditore concepiva il gestionale al di fuori di un server fisico posizionato dentro l’azienda. Il concetto di restartup è un’idea molto interessante e noi italiani, invece di andare a cercare esempi americani, dovremmo iniziare ad investire nelle restartup che si possono fare qui nel nostro Paese: ci sono tantissime interessanti attività al palo che ne avrebbero bisogno.
I prodotti a basso impatto, l’attenzione al capitale umano e all’economia circolare vi rendono un modello dal punto di vista dei criteri ESG: come si declina la sostenibilità nella filosofia aziendale?
La mia generazione già dall’università ha abbracciato i criteri ESG, avendo visto cosa può produrre il capitalismo sfrenato senza regole. Quindi per me il concetto della tutela dell’ambiente ma anche di un certo tipo di umanesimo in azienda sono stati imprescindibili fin dal mio arrivo in Bonacina. Il mio grande punto di riferimento e modello imprenditoriale ovviamente è sempre stato Adriano Olivetti. Non c’è niente di nuovo da inventare, in Italia è stato tutto già tracciato da imprenditori illuminati come lui: pensiamo alle fabbriche di Olivetti, costruite con il vetro per fare in modo che gli operai potessero rimanere in contatto con il verde, con la natura all’esterno degli edifici, gli asili per le mamme, la mensa interna, la biblioteca. Sono tutti aspetti fondamentali per avere in azienda talenti giovani e motivarli. Dopotutto è proprio ciò che vorrei per me stesso: ho lavorato in altre realtà ed ero sempre quello che a metà mattina e metà pomeriggio aveva fame, ma si faceva un sacco di problemi e aspettava la pausa pranzo oppure di tornare a casa. Quindi, forse anche ispirato dalla Silicon Valley, ho fatto progettare un ristorante aziendale che offre cibo di qualità e in cui mangiamo tutti insieme, dagli artigiani ai dirigenti. Ci sono anche due aree relax con cereali, barrette, succhi di frutta, toast e macchina per il caffè. Tutti i nostri uffici sono stati costruiti sull’idea di un ambiente domestico, utilizzando colori caldi per ricreare un’atmosfera accogliente. La temperatura dei capannoni in inverno è di 19/20°, in estate c’è l’aria condizionata. Offriamo tantissimi corsi di formazione, in particolare sulle soft skill: chi arriva segue corsi di gestione dello stress, empatia, gestione del tempo. Il tuo lavoro quotidiano lo impari mentre realizzi un prodotto, mentre fai, invece quello che noi dobbiamo insegnare ai collaboratori è come non litigare, come gestire il tempo, come essere empatici e capire se un collega è in sofferenza o no. Perché l’importante non è il metodo che imponi ai dipendenti, ma la produttività, gli obiettivi che si raggiungono insieme. Altrimenti andremmo a lavorare solo per fare i robot: invece noi siamo una comunità, la nostra azienda è una comunità, dove tutti si vogliono bene e si rispettano. Tutti vogliono venire in azienda e quando proponiamo lo smartworking dicono di no, rispondendo che la nostra sede è più bella di casa. A livello di valorizzazione del territorio che ci circonda, finanziamo formazione per gli artigiani locali, aiutandoli a trovare i giovani che vadano in bottega a imparare il mestiere; abbiamo cofinanziato insieme ad altre aziende e al Comune un pullmino che accompagna gli anziani soli all’ospedale per cure e visite; abbiamo realizzato con la Fondazione Cologni una fiaba che parla dell’artigianato da distribuire ai bambini delle elementari in modo che, leggendola a casa con i genitori, possano appassionarsi al mondo della fabbrica e all’artigianato e non sognare tutti di diventare dottori o avvocati. Un mio grande obiettivo è sempre stato quello di rendere l’azienda autosostenibile, quindi abbiamo introdotto auto elettriche, un unico impianto in pompa di calore elettrico che fa sia da riscaldamento sia da aria condizionata, il tutto ovviamente supportato da energie rinnovabili. I nostri consumi e il nostro impatto sull’ambiente circostante sono bassissimi. Aggiungo che, nel nostro processo di espansione, non costruiamo nessun edificio nuovo, ma andiamo a ristrutturare capannoni già esistenti. Ce ne sono tantissimi e non ha senso sprecare costruendo qualcosa di nuovo, mentre si potrebbe tranquillamente utilizzare quello che già c’è.
Bonacina 1889 è una realtà molto giovane: in che modo si diventa – e si rimane – attrattivi verso le nuove generazioni?
Quando mi dicono “Come fai a trovare i giovani, noi non riusciamo a convincerli a venire a lavorare, è una generazione disgraziata”, rispondo sempre che non ho mai avuto, nemmeno per un giorno, problemi nel trovare risorse. Certo che se il colloquio a un ventenne lo fa il titolare di 75 anni, le argomentazioni e le visioni sono molto differenti. I giovani oggi sono molto attaccati ai concetti reali che l’azienda può esprimere, la leadership è importante ma anche i più piccoli dettagli incidono. Abbiamo tanti dipendenti che da Milano vengono a lavorare in Brianza, perché qui è l’ambiente che fa la differenza. Sono molto attento al dettaglio, e come dicevo prima, da noi gli spazi sono sempre ben riscaldati in inverno e ben climatizzati in estate, c’è un impianto di ricircolo dell’aria per mantenere sempre tutto salubre, nelle aree relax abbiamo i divani, la televisione, e persino sei posti letto per fare un pisolino, se non sei riuscito a riposare la sera prima perché hai un bimbo piccolo e semplicemente hai avuto un contrattempo a casa. Trovo sia meglio dare la possibilità di riposarsi 30 minuti e ricaricarsi per lavorare bene dopo, piuttosto che lavorare 4 ore senza energie. Tutti questi benefit hanno aumentato esponenzialmente la produttività e gli investimenti iniziali di cui mi sono dovuto necessariamente fare carico stanno tornando tutti indietro. Nessuno se ne va più via, perché nel momento in cui ricevi un’offerta lavorativa che magari prevede anche il 30% in più di stipendio, ma non include i corsi e le iniziative che offriamo noi, in un’azienda che impone una gerarchia verticale invece che orizzontale come la nostra, difficilmente la accetti. Quando parlo con colleghi che raggiungono 25 milioni di euro di utile e hanno uffici in cui si lavora tutto il giorno davanti al computer sotto luci al neon uguali a quelle dei capannoni industriali, dico sempre loro: “Pensi che sia bello venire a lavorare da te?”. In Bonacina 1889 abbiamo creato un’azienda per gli anni 2000 e oltre ma continuiamo a rinnovarci, a spingere su questi aspetti, a confrontarci. Io ho 34 anni e i ventenni che entrano oggi in azienda mi aiutano perché rappresentano già una generazione diversa dalla mia. Siamo stati tra i primi a inserire l’intelligenza artificiale nei processi aziendali, stiamo creando un chatbot di proprietà per fare formazione sulle nuove generazioni, nel 2023 abbiamo inaugurato il museo aziendale con due scopi, da un lato coltivare il cliente, che quando viene da noi può immergersi nella nostra storia, ma anche per i collaboratori, per i dipendenti. Chi arriva in Bonacina fa formazione nel museo, dove si possono percepire al meglio i valori aziendali. I candidati, soprattutto quelli più giovani, arrivano al colloquio molto preparati: hanno già visitato il tuo sito web e letto tutti i tuoi report e quando entrano in azienda, se si accorgono che metà delle cose che hai scritto sono bugie, dopo non ti credono più. Non siamo più nell’epoca in cui l’operaio ha lo sciur padrun a cui deve onore e rispetto e a cui deve essere grato ogni giorno perché gli dà lavoro. Oggi è l’azienda a dover incontrare i valori del lavoratore: per me questo non è un peso ma un plauso, non mi sento sminuito come datore di lavoro, anzi sono convinto che chi si rispecchia nei miei valori, lavorerà in modo molto più intenso ed efficace rispetto a chi non li condivide.
Che consiglio daresti ai giovani che si affacciano sul mondo del lavoro?
Il mio consiglio è semplice ed efficace, sia per il lavoratore sia per chi vuole fare impresa: fare, imparare e rischiare. Le migliori imprese d’Italia sono state costruite da persone con la terza elementare: venivano tutte dalla provincia e avevano una formazione basilare. Questo cosa ci fa capire? Non che la formazione e lo studio non siano importanti, ma che queste persone visionarie erano libere da pregiudizi, da ricerche di mercato, da studi che possono generare anche un overthinking, un eccesso di pensiero e ragionamento che non porta mai all’azione. Queste persone ancora oggi, a 80 anni, continuano a vivere così, agiscono nel momento in cui gli sembra di intravedere un’opportunità. Se gli dicono che l’India è uno dei mercati del futuro, partono e aprono uno showroom. Invece oggi se parli con un giovane, magari laureato alla Bocconi, ti dice che forse non è il momento perfetto, che c’è una leggera flessione, che i dazi di Trump potrebbero colpire in modo collaterale di qui o di là,… Oggi i giovani tendono a non rischiare, tendono a non muoversi perché c’è un eccesso di informazioni che li porta a pensare che ad ogni loro passo possa corrispondere un eventuale scenario negativo. Invece l’operaio che poi è diventato dirigente o il giovane appassionato che poi è diventato imprenditore, si sono sempre lanciati per forza un po’ nel vuoto e facendo errori, imparando hanno trovato la giusta via. Questo era vero 136 anni fa come lo è oggi: è impossibile azzeccare al primo colpo la scelta giusta, non c’è niente di male nel trovare un lavoro per poi scoprire che era quello sbagliato o nel fare esperimenti all’interno dell’azienda che potrebbero andare male. Se non facciamo e non sperimentiamo, non abbiamo feedback e non possiamo trovare la strada giusta. Oggi mi sembra che tutti vorrebbero azzeccarla al primo colpo, ma è impossibile. Quindi il mio consiglio è rischiate, fate: ha molto più valore una persona che ha provato, ha sbagliato e ha imparato qualcosa da quegli errori, di uno che non si è mai mosso per paura di sbagliare.
Cosa ha in serbo il futuro?
Un anno fa abbiamo aperto la nostra sede negli Stati Uniti, abbiamo spostato personale, aperto la società e inaugurato lo showroom. Sicuramente nel futuro prossimo c’è la volontà di entrare direttamente nei mercati con strutture nostre, per essere sicuri di divulgare al meglio il Made in Italy e i valori di Bonacina 1889. C’è una continua ricerca per creare dei prodotti che siano interessanti, di qualità, e che abbiano un’estetica che spesso altrove non c’è: il mercato ce lo riconosce, quindi proseguiremo questa nostra bellissima ricerca sulle forme del domani. Continueremo anche ad assumere giovani e a lasciarci contaminare da tutto quello che di positivo accade intorno a noi, come l’intelligenza artificiale, che riteniamo un’opportunità, non un rischio. In questo scenario non possiamo che vedere un futuro interessante e prospero. Nel 2024 abbiamo battuto il nostro piano industriale con un anno d’anticipo, quindi siamo gasatissimi. Le crisi e i cambiamenti geopolitici sono sempre relativi, alla fine sono le persone che fanno la differenza. E qui mi ricollego a quanto detto prima: se dovessi guardare sempre lo stato della politica o dell’economia, non farei mai niente. Noi continuiamo ad agire, a creare, a pensare e ad assumere, e questo continua a premiarci e a farci crescere. L’importante è riuscire a stare sempre sulla barca di quelli che crescono, che innovano, che funzionano. Anche durante le grandi crisi del 2008 e del 2012 ci sono state aziende che sono cresciute, dipende da come tu ti stai muovendo e questo per me è un mantra. Io cerco di rimanere sempre informato su tutto ciò che accade nel mondo, però poi non lascio che le mie decisioni vengano guidate solo da questo. Ora siamo in America direttamente con la nostra società e sono sicuro che troveremo il modo di continuare a vendere ugualmente bene nonostante i dazi. Se ogni ostacolo ti toglie entusiasmo o viene visto come una Spada di Damocle, finisce che non fai l’imprenditore e rimani fermo.
A cura di Erica Premoli