LA LEADERSHIP, ARTE E FATICA DI GUIDARE UN’AZIENDA

“La vera leadership è quella che ne genera altra. È l’arte di scomparire, creare spazio per il talento altrui e non rendersi mai indispensabili”. Firmato Giuseppe Morici, Vice Chairman di Feltrinelli e former Group Ceo di Bolton. Chapeau. Basterebbe leggere la quarta di copertina del suo ultimo libro “Leader ma non troppo. Arte e fatica di guidare un’azienda” per comprendere immediatamente che non siamo di fronte a un normale manager. Certo, la sua esperienza ai vertici di importanti realtà italiane e multinazionali come, per fare solo qualche esempio, Barilla, Bolton e oggi, seppur in un ruolo non operativo, il Gruppo Feltrinelli, dovrebbe già farlo supporre. Ma al di là degli indubbi meriti e capacità tecniche che lo hanno portato da Procter & Gamble a livelli manageriali altissimi, la cifra di Giuseppe Morici sta tutta nella profonda umanità, nell’etica, nella visione, nella responsabilità, sottese a ogni sua parola, a ogni sua azione, a ogni domanda che pone e si pone. E, ovviamente, a ogni risposta che offre al lettore. Sta in quella scelta di non tenersi tutto questo dentro di sé, ma di raccontarlo a migliaia di studenti universitari che affascina in seminari a cui generosamente partecipa. O, ancora, in quella scelta di farlo attraverso i suoi bellissimi libri, tre, che si leggono tutti d’un fiato. Sembrano una confessione, ma in realtà sono una vera e propria guida per coloro che si trovano a condurre un’impresa in un mondo in continua trasformazione. Perché, capitolo dopo capitolo, si capisce che ciò che cerca Morici è il senso, scavando nel profondo. Lo si comprende già nella scelta dei titoli: “Fare marketing rimanendo brave persone” il primo, “Fare i manager rimanendo brave persone” il secondo, e l’ultimo, per ora, che poteva tranquillamente intitolarsi “Fare i leader rimanendo brave persone” mentre questa volta ha preferito in qualche modo limitarne il ruolo, andando oltre la valutazione etica e intitolandolo “Leader ma non troppo”. Un libro dal quale emerge, quasi con benevola e garbata prepotenza, quella necessità, da subito dichiarata, di una leadership che non metta al centro il sé-leader ma l’altro, gli altri. Proprio per quella necessità di una “leadership che sia arte di stimolare la crescita delle persone e del loro talento e che a un certo punto diventi anche arte di scomparire”.

Dottor Morici, partendo da quest’ultimo concetto, l’arte di scomparire, siamo di fronte a una rivoluzione che, in sostanza, comporta un cambio epocale rispetto al cosiddetto protagonismo del leader che ha governato fino a qualche tempo fa. Perché?

Per due motivi, uno che in realtà è sempre stato valido, e uno che è ancor più valido in questi tempi. Il primo è che se un’organizzazione si pone come orizzonte non il tempo del leader ma il tempo dell’organizzazione stesso, che dovrebbe essere l’eternità, come dice Cucinelli, allora ci si deve porre il problema di chi la gestirà in futuro. E se non si vuole ricorrere sempre a inserimenti di leader dall’esterno, che spesso falliscono per incompatibilità culturale, meglio occuparsi dei leader del futuro, per tempo. Il secondo motivo, più contingente, è che i problemi che ci troviamo di fronte come imprenditori e manager di questa nostra epoca sono talmente vasti e profondi che non possono essere affrontati dai singoli. Non è più tempo, ammesso che lo sia mai stato. La leadership salvifica, eroica e solitaria non è per questi tempi, non è per queste generazioni.

A questo aspetto è inscindibilmente legato un altro concetto che esprime nel suo libro: il leader dovrebbe disimparare a fare, per consentire ai più giovani di apprendere il loro mestiere in un ambiente aperto e generativo. Assumono quindi importanza termini quali fiducia, delega e, se vogliamo, anche la scelta di validi collaboratori.

Capire che il mestiere del leader non è quello di fare ma quello di far fare è uno dei traguardi più semplici a parole e più difficili nella pratica. E c’è anche chi non è d’accordo neanche con le parole. C’è chi crede che i capi debbano essere più bravi dei loro collaboratori a “fare”. Questa concezione porta a due guai: il primo è quello di promuovere ai vertici delle aziende delle persone che non sanno guidare altre persone, non le sanno coordinare né tanto meno ispirare. Il secondo è che si impoveriscono i reparti delle competenze migliori legate appunto al “saper fare”. Al contrario, bisogna investire sulle persone, sui giovani che ci dicano cosa va fatto e non su persone cui dobbiamo dire noi cosa fare. Cosa volete che sappiamo noi cinquantenni di Instagram! Noi dobbiamo dare all’organizzazione le competenze giuste, migliori delle nostre, obiettivi chiari, risorse e supporto. Certo tutto questo si può fare se le persone sono quelle giuste al posto giusto!

Se guardiamo al panorama aziendale italiano, composto al 90% da piccole e medie imprese principalmente a carattere familiare, si nota che se prima c’era una certa difficoltà nella gestione di un buon passaggio generazionale, ora la difficoltà sta forse nel passaggio manageriale. O almeno, nell’affiancamento di manager alla famiglia. Un capitolo del suo libro è dedicato a questo equilibrio. Sinteticamente che consiglio darebbe in questo senso agli imprenditori?

Il consiglio che do è di considerare quello del passaggio generazionale e quello del passaggio manageriale come “un progetto”, che richiede competenza, rigore, disciplina e fiducia. Costruirebbe mai un imprenditore uno stabilimento senza affidarsi agli ingegneri e ai consulenti esterni? Redigerebbe mai un bilancio senza gli esperti, i sindaci e i revisori? E perché mai allora quando si tratta di preparare la transizione alla generazione successiva e quando si tratta di definire la governance che includa anche un manager non di famiglia, non ci si affida all’esperienza ultradecennale che università, consulenti, centri di ricerca e associazioni hanno sviluppato in tutta Europa? Bisogna rassegnarsi all’idea che queste tematiche non sono uniche e speciali, nella nostra azienda. La domanda di fondo, comunque, è sempre una e una sola: l’imprenditore cosa vuole fare nella sua azienda? L’azionista, l’imprenditore o il capo-azienda? Da questa prima domanda discendono con ordine e metodo tutte le altre. Altrimenti regna la confusione. Bisogna affidarsi alle competenze giuste e tenere fisso lo sguardo al futuro remoto.

Per tanto tempo è prevalsa la sensazione secondo la quale il manager guarderebbe più a massimizzare il profitto a breve o brevissimo termine a svantaggio di una visione a lungo termine. L’impressione è che forse, grazie anche all’avvento del mantra della sostenibilità, qualcosa sia cambiato. Qual è la sua opinione?

Se si vuole massimizzare il profitto, l’ho scritto nei miei libri, suggerisco metodi più veloci e redditizi rispetto a fare impresa. Fare impresa è un mestiere impegnativo, denso di responsabilità; è un cammino lungo, faticoso e dai ritorni molto incerti. Avrò avuto la fortuna di frequentare gli ambienti giusti, ma io di aziende industriali ossessionate dal profitto, nella mia vita, non ne ho viste tante. Ho visto piuttosto la genuina determinazione a raggiungere la sostenibilità economica dei propri progetti, che insieme a quella sociale e ambientale rende il concetto di sostenibilità davvero completo. Se si cercano i responsabili di un eccessivo focus sul profitto non li cercherei nei corridoi delle aziende industriali, quanto forse in una distorta interpretazione del ruolo della finanza e della borsa.

Cosa significa per lei sostenibilità?

È molto semplice. La sostenibilità di un’azienda sta nel suo essere in equilibrio con l’ecosistema in cui opera e, in questo equilibrio, nel generare valore positivo per tutti coloro che entrano in relazione con essa. È ovvio che sia l’equilibrio che il valore devono essere non solo economici ma anche sociali e ambientali. Sostenibilità, come dicono i francesi, è durabilità, cioè garantire all’azienda un futuro senza fine, che per essere tale non può che essere in equilibrio.

Molto legato al concetto di sostenibilità c’è quello di responsabilità. Nel suo precedente libro “Fare i manager rimanendo brave persone” ha scritto un concetto in merito che definirei rivoluzionario. Cito: “Le aziende non sono soggetti economici con una responsabilità sociale, ma sono soggetti sociali con una responsabilità economica”. Forse è uno dei rari casi in cui invertendo l’ordine degli addendi il risultato cambia e di molto. Cosa significa questa interpretazione?

È una definizione a cui sono molto affezionato. Volevo dire semplicemente che le aziende non nascono per fare soldi, esse sono “cittadini delle loro comunità” esattamente come le altre organizzazioni della città, come le associazioni, i partiti, le istituzioni, la chiesa. Il loro contributo specifico però sta nel fatto di generare e distribuire valore (non solo) economico. Quindi il ruolo è un ruolo sociale, creare lavoro, sviluppare prodotti di qualità, ma il contributo è un contributo economico. Solo invertendo gli ordini di questi due fattori la sostenibilità e la responsabilità entreranno nei gangli del modello di business delle aziende e le trasformeranno davvero.

Sostenibilità – o durabilità come le piace chiamarla – e responsabilità, comportano la necessità di generare nuova leadership da parte del leader, uno dei concetti cruciali della sua ultima fatica letteraria. Come si fa a generarla e non, al contrario, a bloccarla?

Bisogna elaborare alcuni lutti. Il lutto del controllo: i nostri collaboratori devono raggiungere gli obiettivi che assegniamo loro ma lo devono poter fare nel loro modo, non necessariamente nel nostro. Il lutto della nostra eternità: dobbiamo concepire, pensare, progettare il tempo dopo di noi. Il lutto della perfezione: dobbiamo accettare che alcune cose possano riuscire non perfette e considerare quello come un costo della formazione, cioè un investimento. E poi, soprattutto, ci devono piacere i giovani che crescono. Se la loro crescita ci fa gioire e sorridere, saremo bravi leader. Altrimenti no. C’è stato un leader che per lei era un modello a cui si è ispirato? No. Sono anni che mi pongono questa domanda e non so mai dare una risposta. Ma ho capito anche perché. Una volta mi dettero il consiglio di cercare di assomigliare per ciascun aspetto della mia professionalità al capo che era stato per me più bravo in quella specifica caratteristica e non di cercare di assomigliare a un capo solo, che avesse tutte le caratteristiche espresse al massimo livello. Questo suggerimento ha due vantaggi: il primo è che si può realizzare il proprio mix personale e autentico. Il secondo è che il paragone non risulta paralizzante, perché non ci si pone di fronte un mito irraggiungibile ma alcuni stimoli costruttivi.

Parlando di ispirazione, c’è un passaggio del suo ultimo libro che colpisce molto: si può sbagliare una decisione ma non un comportamento, perché un comportamento nasce dal profondo. Cosa significa?

Sbagliare parole e decisioni è facilissimo e molto frequente. Siamo umani. Sbagliare comportamenti in realtà si può anche, purtroppo, però di solito è un po’ più raro, perché dietro i comportamenti ci sono i valori, cioè la nostra cultura, quel che conta e vale di più per noi come esseri umani. E queste cose non cambiano. Quindi se sbagliamo comportamento, di solito è in un momento di rabbia o di depressione o di euforia. E questo ce lo si può perdonare. Sappiamo però, come leader, che le nostre parole possono essere dimenticate, le nostre decisioni anche, ma i nostri comportamenti rimangono come pietre sul nostro tavolo per mesi e mesi. Quindi occhio ai comportamenti!

L’ultima domanda è per i giovani: cosa consiglia loro?

Di scattarsi una Polaroid oggi e di tirarla fuori dal cassetto ogni cinque anni. Se a cambiare è solo l’aspetto, tutto ok. Se vedono che lo sguardo non è più lo stesso, consiglio di fermarsi e riflettere. Forse sono sul sentiero sbagliato. Quello che siamo a vent’anni (che ovviamente non coincide con quello che facciamo, perché a vent’anni ancora si fa poco) è il nostro vero nord. Il resto della vita ci tende imboscate per farci deviare il percorso. Per questo una Polaroid può aiutare a ricordarcelo.

In realtà l’ultima domanda davvero sarebbe: E il suo prossimo libro come si intitolerà? Ma non sappiamo se possa svelarci questo segreto…

Ce ne sono due in cantiere. In entrambi il concetto di futuro è centrale. Quindi ne riparleremo… in futuro.

A cura di Stefano Rudilosso