EMERGENZA TECNICI: INTERVISTA A GIOVANNI BRUGNOLI

Dopo l’emergenza pandemica che, si spera, sia finalmente superata, ora le imprese si trovano nel mezzo di un’altra emergenza che ha sicuramente radici più profonde e soluzioni non immediatissime: la difficoltà di reperimento di figure tecniche, accompagnata da una curva demografica calante che si misura già nella diminuzione di iscrizioni alle scuole primarie. Basta sfogliare qualsiasi giornale, sia nazionale che locale, per leggere appelli di imprenditori che cercano disperatamente giovani tecnici. E i dati confermano: secondo il recente studio di Altagamma – Unioncamere, pubblicato nel libro “I talenti del fare 2”, da qui al 2026 saranno richiesti 108mila profili nell’automotive, 94mila nella moda, 62mila nell’alimentare, 46mila nel design e mobile e 36mila nell’ospitalità. Questi numeri preoccupano ancor di più alla luce del primato, tutto italiano, per disoccupazione giovanile – siamo al 22,1% – e per abbandoni scolastici – siamo al 13,5%. Un vero e proprio paradosso, nel quale a suonare la sirena d’allarme è il cosiddetto mismatch, ovvero il disallineamento tra quanto richiesto dalle imprese in termini di conoscenze, abilità e competenze e quanto invece offerto dai potenziali lavoratori, arrivato a livelli elevatissimi: per le professioni tecniche è del 51,6% e addirittura è al 61,9% per la figura dell’operaio specializzato. È evidente che tutto questo abbia i connotati dell’emergenza. O, se vogliamo vederla in positivo, di una grande sfida che metta al centro il Capitale Umano come condizione essenziale per mantenere, anzi aumentare, la competitività del nostro Paese e promuoverne lo sviluppo, facendo sì che i protagonisti siano i giovani. Di questa sfida epocale ne parliamo proprio con il Vice Presidente di Confindustria per il Capitale Umano, Giovanni Brugnoli. Lombardo, classe 1970, Brugnoli è Presidente del Consiglio di Amministrazione dell’azienda Tiba Tricot Srl di Castellanza, in provincia di Varese, società leader nella produzione di tessuti indemagliabili per abbigliamento sportivo, tessuti industriali e per l’arredamento. Già Vice Presidente di Confindustria per il Capitale Umano dal 2016 è Presidente di Unimpiego Confindustria. È anche componente dei CdA dell’Università Carlo Cattaneo – LIUC, di Previmoda Fondo Pensione, di Banca Generali, della associazione ALUISS e dell’Università Luiss Guido Carli. Giovanni Brugnoli è stato anche, giovanissimo, Presidente dell’Unione degli Industriali della Provincia di Varese, ora Confindustria Varese, dal 2011 al 2015.

Vice Presidente Brugnoli, partiamo forse dal primo problema che si riscontra nella cosiddetta filiera del Capitale Umano: l’orientamento. Secondo gli ultimi dati disponibili i licei continuano a essere la scelta prevalente di famiglie e studenti. I vari indirizzi liceali sono stati infatti scelti dal 57,1%, mentre gli istituti tecnici si assestano su un 30% e molto peggio fanno gli istituti professionali che restano ancorati al 12%. Secondo lei perché accade questo fenomeno?

Una visione stereotipata del lavoro da una parte e dall’altra la miopia della politica che non ha saputo valorizzare l’istruzione tecnica e professionale, relegandola con il passare del tempo ad un ruolo subalterno, incidono sulla preferenza accordata dalle famiglie ai licei. Gli istituti tecnici e professionali sono stati chiamati molto spesso ad assorbire gli effetti distorsivi di un sistema di istruzione e formazione carente sotto il profilo dell’orientamento e della didattica. Studenti con gravi lacune accumulate nei cicli precedenti e studenti con precedenti esperienze negative, sono stati spesso indirizzati ad intraprendere percorsi tecnici senza le basi teoriche necessarie e, in via residuale, senza una reale motivazione. Gli istituti tecnici, privati di una loro identità e bollati come “diplomifici”, sono oggi ritenuti meno prestigiosi dei licei nonostante il numero dei diplomati che consegue la laurea oggi sia in netto aumento rispetto al passato, a riprova del fatto che i diplomati provenienti da scuole tecniche possono contare su una preparazione in ingresso equiparabile a quella dei liceali.

Cosa si potrebbe fare per invertire la tendenza e spingere famiglie e studenti verso istituti tecnici e scuole professionali che garantirebbero un’occupazione sicura nelle imprese italiane?

Per favorire le iscrizioni agli istituti tecnici, occorre prima di tutto valorizzarne i punti di forza: didattica laboratoriale e spendibilità professionale delle competenze acquisite negli indirizzi collegati con i settori produttivi più avanzati della manifattura. Per farlo, occorre corroborare l’osmosi scuola-impresa-territorio sin dal primo anno e non solo nell’ambito di percorsi di alternanza scuola-lavoro. A questo proposito, siamo pronti a mettere a disposizione i tecnici delle nostre imprese per supportare la realizzazione di collaborazioni virtuose sulla base dell’expertise che già molte imprese del sistema Confindustria hanno acquisito nell’ambito della didattica e dell’accoglienza dei ragazzi. Siamo disponibili a confrontarci con il Ministro Valditara e con gli stakeholder del mondo Education per dare seguito a questa proposta per verificarne la fattibilità da un punto di visto operativo.

Una recente ricerca promossa da Federmeccanica evidenzia che nell’immaginario dei giovani sotto i 34 anni crolla il prestigio sociale del lavoro manuale, in particolare della professione operaia, che vede solo il 19% degli intervistati dare un parere positivo ad essa, mentre oltre il doppio apprezza le figure di blogger e influencer. A suo avviso quali potrebbero essere gli strumenti da mettere in campo per restituire dignità e un’immagine positiva all’operario e alla fabbrica?

Bisognerebbe lavorare su uno storytelling efficace che sappia trasmettere il valore aggiunto che la manifattura ha rappresentato e rappresenta per la crescita del nostro Paese in termini di benessere e sviluppo. E utilizzare i canali più appropriati. Per questo motivo, abbiamo ritenuto che RTL potesse supportare Confindustria e le imprese del sistema ad “arrivare” al grande pubblico; abbiamo ideato un programma – “Il post(o)in fabbrica” – che ogni mercoledì in orario di punta permette a imprenditori ed HR expert di raccontarsi e raccontare la vitalità della nostra manifattura. Alla stessa stregua, abbiamo pensato di rinnovare ogni anno format e linguaggio di una manifestazione collaudata, qual è ormai da quasi 30 anni “Orientagiovani”: l’obiettivo è portare all’attenzione di giovani e famiglie il variegato ventaglio di opportunità offerto dalla manifattura che evolve al passo con le trasformazioni economiche e sociali. Quest’anno abbiamo pensato di riempire uno stadio con gli “STADI Generali dell’Orientamento” che si svolgeranno a Frosinone, al Benito Stirpe, proprio per portare i giovani a confrontarsi sul proprio futuro – formativo e professionale – fuori dagli schemi e dagli spazi tradizionalmente deputati al confronto.

Tornando un attimo agli influencer, sarebbe troppo eretico pensare di “assoldarne” qualcuno per aiutare a promuovere l’immagine delle imprese manifatturiere tra i più giovani e, magari, entusiasmarli di nuovo al lavoro manuale?

Per evidenti ragioni di credibilità e autorevolezza, quando si parla di scelte importanti come quelle che riguardano scuola e lavoro, ritengo che eventuali “influencer” per un’efficace campagna di comunicazione debbano essere individuati tra le persone che hanno scelto la manifattura come opportunità per realizzare le proprie aspirazioni di vita e lavoro. Non credo che sia necessario cercare altrove: le fabbriche sono piene di talenti – molto spesso giovani diplomati ITS – che stanno mettendo a frutto i propri studi e che possono confermare l’attrattività della manifattura.

Un altro tema di cui si discute da tempo è la cosiddetta fuga di cervelli. Il saldo dei talenti, per l’Italia, è negativo. Secondo il recente studio del prof. Brunello Rosa della London School of Economics, si calcola che dal 2015, ogni anno, sono andati all’estero 50.000 lavoratori qualificati. Premesso che probabilmente si tratta di un fenomeno per certi versi fisiologico e incomprimibile, non bisognerebbe forse lavorare sull’attrazione dei cervelli dall’estero? Come si può diventare attrattivi?

Per diventare attrattivi nei confronti di high-skilled worker bisogna impostare una collaborazione pubblico-privata. Restando sul tema education, la collaborazione delle imprese con scuole ITS e università migliora l’attrattività di queste istituzioni educative: nello specifico, già oggi le università italiane più attrattive nel mondo sono quelle che hanno partnership stabili con i grandi brand della moda, dell’automotive e di tutti i settori potremmo definire il “meglio” del made in Italy. Pubblico e privato devono, insieme, concorrere a creare un “Made&Educated in Italy” che riuscirebbe ad attrarre anche giovani di Paesi avanzati. Ci troviamo nella situazione in cui dagli Stati Uniti, dall’Asia e dai Paesi europei più ricchi arrivano molte persone che scelgono l’Italia per vivere ma lo fanno a fine carriera o addirittura in una fase avanzata della loro vita. Ecco, a partire dalla collaborazione con il nostro sistema educativo possiamo fare in modo che anche i giovani dei nostri Paesi competitor possano scegliere l’Italia per studiare, lavorare, vivere.

Confindustria è stata promotrice di uno strumento importante come gli ITS che hanno il merito di portare gli studenti che terminano la loro formazione direttamente nelle imprese. In Lombardia più del 92% trova occupazione inerente al percorso fatto. È soddisfatto di come sta procedendo questa iniziativa?

Confindustria ha dato un contributo importante alla realizzazione della seconda gamba “professionalizzante” dell’istruzione terziaria – gli ITS – punta di diamante del sistema di istruzione e formazione nazionale che ha permesso al Paese di allinearsi ai principali competitor europei. Molto, tuttavia, resta da fare per colmare il gap con Paesi come la Germania che hanno colto le potenzialità dell’istruzione terziaria professionalizzante oltre 20 anni fa: scontiamo ancora numeri “sottili” in termini di iscrizioni e, quindi, di diplomati in uscita dagli ITS. Diventa, quindi, prioritario lavorare sulla promozione degli ITS al fine di ampliare il bacino di diplomati cui le imprese possono attingere, da un lato, e, dall’altro, occorre valorizzarne la professionalità per evitare il “dumping” tra le imprese per “accaparrarsi” giovani talenti. Il rischio per il nostro Paese è che la “fuga dei cervelli” si estenda anche ai supertecnici in uscita dagli ITS formati in Italia.

Come vede il futuro della formazione terziaria non universitaria e dell’ampliamento a tre anni degli ITS ?

L’ampliamento a tre anni degli ITS ha senso e utilità solo in casi specifici che vanno ben delimitati, cosa che del resto la riforma del 2022 consente, ad esempio nei pochi casi in cui le normative internazionali richiedono certificazioni tecniche ISCED 6, come nel trasporto navale. Ma gli ITS si caratterizzano e differenziano dall’università anche per la loro durata, biennale, che deve rimanere. Ciò non toglie che con particolari accordi con l’università sia possibile inserire un anno integrativo di università dopo il biennio ITS. Ci sono sperimentazioni in corso che lasciano ben sperare. Il futuro della formazione terziaria non universitaria sta paradossalmente in una maggiore cooperazione sia con le università che con tutti gli ambiti formativi più avanzati, ricerca compresa. Questo ci dicono i buoni modelli di Francia, Germania, Svizzera. Ma intanto cerchiamo di consolidare gli ITS che ci sono, almeno quelli migliori affinché siano da traino. Il resto si vedrà.

Come pensa si possa sostenere l’afflusso verso gli ITS?

Con un buon orientamento che parta già dalle scuole medie e che si rivolga più direttamente agli insegnanti. Abbiamo poi bisogno che a fare da testimonial degli ITS siano i giovani diplomati che poi sono stati assunti: dove lo facciamo i risultati in termini di iscritti sono molto positivi. Abbiamo poi bisogno di passerelle in entrata e in “ri-entrata”: ad esempio sperimentare percorsi preferenziali 4+2, con quattro anni di istituti tecnici e professionali “rinforzati” che consentono, al verificarsi di determinati criteri di merito, di accedere direttamente agli ITS. Oppure lavorare sull’abbandono universitario creando sistemi di virtuoso riassorbimento dei giovani che sentono di aver sbagliato scelta formativa e vogliono giocarsi le loro chance negli ITS.

Lei siede anche nei CdA di importanti università italiane. Il rapporto tra il mondo universitario e le fondazioni ITS è un’opportunità di sviluppo o una possibile situazione critica?

Come anticipato, è un’opportunità di sviluppo se l’osmosi permette di strutturare partnership virtuose, per esempio in ambito ricerca e sviluppo, scevre da pregiudizi ideologici, orientate a logiche win-win. ITS e università sono percorsi alternativi ma del tutto integrabili.

Oggi si parla molto di upskilling e reskilling: com’è possibile supportare le nostre imprese, soprattutto le PMI, che hanno meno risorse, per gestire questa necessità che interessa sia i lavoratori che i datori di lavoro?

In Italia, i fondi paritetici interprofessionali sono i principali strumenti di finanziamento della formazione in azienda. Fondimpresa – tra i 19 fondi, il più importante anche in termini di performance – svolge un’importante funzione di stimolo nella dialettica domanda-offerta di formazione, grazie anche alla logica “mutualistica” degli “avvisi” con cui consente anche alle PMI di accedere a iniziative di formazione altrimenti difficilmente finanziabili a causa dell’esiguità delle proprie risorse accantonate sul proprio “conto formazione”. Per supportare le imprese del sistema, Confindustria svolge un’attività di comunicazione rivolta ai referenti education delle associazioni territoriali e di categoria del sistema, dando evidenza sul proprio sito e a mezzo mail delle opportunità di finanziamento nel campo della formazione. L’obiettivo è duplice: da un lato ottimizzare la tempistica di presentazione dei piani da parte delle imprese associate aderenti al fondo, che possono avvalersi anche del supporto dei colleghi sul territorio; dall’altro promuovere la cultura della formazione continua al fine di avvicinare il maggior numero di imprese al fondo.

Nei territori di confine con la Svizzera, che lei ben conosce, c’è un fenomeno molto particolare: l’attrattività della Confederazione Elvetica di lavoratori italiani che spesso sono stati formati da scuole e aziende italiane. Certamente è difficile contrastare una concorrenza retributiva che vede stipendi quasi triplicare oltreconfine. A suo avviso, anche a livello governativo, si potrebbe intervenire con qualche strumento?

Se la libera circolazione dei lavoratori è un fattore ineliminabile e, da un certo punto di vista, auspicabile nella misura in cui consente alle persone di perseguire le proprie legittime aspirazioni di vita e lavoro e alle imprese di assumere personale skillato, dall’altro per un Paese come l’Italia rappresenta uno dei fattori di rischio per la produttività delle imprese e la competitività dei territori. Il deflusso di Capitale Umano skillato, quando è “unidirezionale”, come nel caso italiano, può causare una diminuzione del numero di imprese e una perdita di produttività, con conseguenze ulteriori sul fronte salariale che va ad incentivare ancora la mobilità dei lavoratori. A questo fenomeno, si somma un assottigliamento del bacino di manodopera cui le imprese possono attingere. è evidente che l’investimento in capitale fisico a supporto dell’innovazione e della digitalizzazione dei processi produttivi possa solo contrastare ma non risolvere il depauperamento causato dalla perdita di Capitale Umano. Per mitigarne gli effetti, occorrono politiche fiscali e tributarie eque e finalizzate ad evitare distorsioni concorrenziali tra i Paesi, diseguaglianze tra i cittadini, squilibri nella distribuzione della ricchezza che vanno, a tendere, ad inficiare copertura e tenuta del sistema di welfare (sanità, istruzione, pensioni).

L’ultima domanda la riserviamo ai giovani: al di là di quanto già detto su orientamento e professioni, c’è un consiglio spassionato che si sente di offrire loro?

Di impegnarsi ogni giorno a farsi domande, senza perdere la speranza di trovare risposte. Le risposte molto spesso sono sotto i loro occhi – penso alle tante opportunità di lavoro che avrebbero se solo facessero certe scelte formative – ma bisogna “orientarsi”, uso questa parola, ossia farsi le domande giuste. Anche per risposte sbagliate, a volte. Ma farsi domande sul proprio futuro è il primo passo per iniziare a costruirlo.

A cura di Stefano Rudilosso