STEVE SCAMIHORN: IL PROJECT MANAGER CHE GESTISCE GLI INTERVENTI COMPLESSI

La sua impresa si chiama BEAR, ma Steve Scamihorn, il protagonista di questa puntata di Comaschi d’adozione, è tutt’altro che un orso. Il sorriso sempre presente in volto è la nota di costante giovialità di un americano che, dopo aver vissuto in 16 città diverse nei primi trentadue anni di vita, ha deciso di fermarsi a Como 24 anni fa, come spesso accade, per amore. Una vita itinerante dovuta, fino all’adolescenza, anche al padre, ufficiale del corpo dei Marines, che ogni due anni doveva cambiare base e con lui tutta la famiglia. Per volere della madre biologa, decisa a garantire ai suoi figli di poter respirare un clima più aperto rispetto a quello rigido delle basi dei Marines, Steve con la sua famiglia ha sempre vissuto all’esterno dei compound militari. Eppure, qualche influenza di disciplina dev’essere arrivata a Steve se è vero, com’è vero, che l’appuntamento per questa intervista era fissato alle 6.30 del mattino, in palestra. Ma lui era già lì da mezz’ora. Lo incontro mentre fa piegamenti sulle braccia, a testa in giù, in posizione verticale. Piccolo dettaglio: Steve ha 56 anni. L’intervista, in realtà, inizierà solo un’ora e mezza dopo, al termine di un workout intenso e di una doccia rigenerante, davanti ad un cappuccino e una brioche tipicamente italiani.

Steve, com’è iniziata la tua esperienza di lavoro in Italia?

Ho studiato architettura ed economia all’università di Cincinnati e, dopo alcuni anni di lavoro negli Stati Uniti mi sono trasferito in Belgio per sposare la mia fidanzata italiana… comasca per la precisione. Poi alla fine degli anni ’90, dopo diverso tempo in Belgio e successivamente in Austria, abbiamo deciso di trasferirci in un Paese d’origine, l’Italia o gli USA. In poco tempo sono riuscito a trovare un lavoro a Milano. Essendo architetto e sapendo che in Italia c’erano – e ci sono tutt’oggi – tanti bravi architetti, ho deciso di propormi come Project Manager, una specializzazione del ramo che mi è sempre piaciuta. Quindi nel 1999 ho iniziato a lavorare in uno studio d’architettura milanese come loro Project Manager interno, risiedendo da subito a Como, città natale di mia moglie. Nel 2001 ho avviato la BEAR Project Management Srl, per offrire agli investitori immobiliari – sia privati che istituzionali – servizi di gestione tecnica per interventi complessi.

Hai incontrato difficoltà all’inizio? Se ce ne sono state, quale atteggiamento hai avuto per superarle?

Ero già sposato da cinque anni prima di trasferirmi in Lombardia e, di conseguenza, avevo già sviluppato una certa conoscenza sia della lingua che della cultura italiana. Devo dire che non ho trovato particolari difficoltà all’inizio, almeno non più di quante ne avessi già affrontate in altre occasioni. Di natura mi ritengo capace di adattarmi a situazioni nuove in quanto ho lavorato in diversi Paesi e ho vissuto in diversi luoghi fin dalla nascita. Magari non ricordo difficoltà perché cerco di avere una mentalità aperta alla novità, di limitare i giudizi e di percorrere la mia strada in modo leale e trasparente. Questo è sempre stato il mio atteggiamento e qui non mi sono comportato diversamente.

Un panorama notturno di Cincinnati, Ohio

Quali sono gli aspetti positivi e negativi nell’operare in Italia?

Tutti i Paesi hanno pro e contro, quindi la mia opinione non è altro che quella… un’opinione e non un giudizio! Iniziamo con la parte negativa: nonostante gli americani siano benvoluti dagli italiani e ci venga attribuito – che sia giusto o sbagliato – un certo fascino, l’Italia comunque rimane un Paese conservatore dal punto di vista lavorativo. La novità viene spesso scartata subito, non si cambia perché questa o quell’attività è sempre stata affrontata in tale maniera, e le aziende spesso non approfondiscono le alternative messe in atto altrove. Naturalmente la mia è una generalizzazione e penso che la situazione sia dovuta in grande parte alla fatica necessaria per far approvare nuovi progetti ed iniziative dalla burocrazia. Inoltre, trovo che il contesto e la competitività internazionale siano meno capiti, almeno nella maggior parte dei casi. Infatti, le prestazioni offerte dal mio ufficio sono altamente apprezzate dalle società straniere, ma meno spesso da quelle italiane. Ma con il passare degli anni percepisco sempre più spesso un cambiamento reale a questa situazione, soprattutto tra i manager più giovani. Per fortuna, esistono professionisti e dirigenti che vogliono cambiare le cose e che cercano un’alternativa all’approccio consueto. Mentre in passato sono stato interpellato da italiani principalmente per i loro progetti all’estero e da stranieri per i progetti in Italia, sto osservando una maggiore attenzione, da parte della generazione più giovane, a quanto succede al di fuori dei propri confini. Ad esempio, proprio quest’anno ho ricevuto un incarico da un giovane imprenditore del Sud Italia che ha studiato e vissuto per molto tempo all’estero e quindi, essendo stato esposto a tante realtà diverse, non è rimasto legato alle solite tradizioni di lavoro. Mentre in Italia gli alberghi sono principalmente a gestione famigliare, lui ha deciso di fondare una società di gestione alberghiera, chiamata Mediterranean Hospitality, come fanno la maggior parte dei brand internazionali. Oltre per le competenze che finora ha mostrato, ho molta stima per lui proprio per questo fatto: cerca di migliorare una situazione attuale, prendendo spunto dalle varie esperienze e puntando sull’eccellenza dei risultati e dei processi. Ecco (ride, ndr), ora ho pensato ad un altro beneficio del lavoro in Italia: l’intervento è al Capovaticano Resort Thalasso Spa, un posto balneare in Calabria stupendo, affacciato sulle Isole Eolie – in Italia i cantieri spesso si trovano in posti incantevoli e suggestivi.

Hai mai pensato di tornare a lavorare nel tuo Paese di origine?

Il mio lavoro fa parte della mia vita, non sono due cose separabili. Certamente mi identifico come americano più che come italiano, ma qui mi sento perfettamente a mio agio e mi ritengo ben inserito a tutti i livelli. Inoltre, la maggior parte della mia vita professionale ormai si è svolta in Europa, e anche se la mia attività principale è la consulenza in termini di project management, intraprendo altre attività correlate e concentrate in questo Paese, comprese la promozione immobiliare e l’investimento in altre attività imprenditoriali. Essendo tutte esperienze lavorative che ho sviluppato qui, tornare in America non è una cosa che cerco in questo momento, anche se non si esclude mai niente. Se dovesse capitare l’occasione particolare la valuterei attentamente ma, essendo contento sia per la mia vita privata che professionale, direi che non fa parte dei miei piani. Inoltre, l’Italia, almeno nel mio caso, offre uno stile di vita equilibrato che è difficile trovare in altri luoghi.

Qual è il futuro del settore nel quale lavori?

Il settore delle costruzioni in Italia ha contribuito per il 6,5% alla crescita del PIL nel 2021, ma è responsabile per il 40% del consumo energetico e per il 36% delle emissioni di gas a effetto serra. Se la crescita del PIL è un segno della crescita del benessere (e non sono del tutto sicuro, riflette tra sé e sé, ndr) trovo che il consumo dell’energia e la produzione di gas serra siano fenomeni allarmanti. Mi rendo conto che il mio confronto non è del tutto equo ma il fatto rimane, gli edifici consumano tanto. Dobbiamo recuperare (e modernizzare) il patrimonio immobiliare attuale, sostituendo i materiali sintetici con quelli naturali, migliorandone le prestazioni. Quindi per me il futuro del settore delle costruzioni (e magari anche di tutti i settori) deve – per forza – essere un futuro all’insegna della sostenibilità, quella vera. Vuol dire meno spreco, più riutilizzi e rinnovi, più materiali naturali, consumo ridotto delle risorse, più local, più sintonia, maggiore durata, meno automatizzazione, ecc. Abbiamo una tendenza a cercare il lusso (come viene definito al momento dai trend internazionali) quando basterebbero la sola modestia e il necessario.

Cosa pensano i tuoi colleghi americani dell’Italia?

Steve Scamihorn a Como

Dipende sempre dalla persona con la quale parli. L’opinione di quelli che conoscono bene l’Italia non si discosta molto dalla mia, mentre quelli che la conoscono attraverso i media o i social hanno magari un’idea più romantica. Negli ultimi decenni ho avuto l’opportunità di conoscere tanti americani che vivono Italia, e quelli che si trovano meglio solitamente sono coloro che hanno qualche legame affettivo – moglie e genitori italiani – che aiutano a comprendere il contesto locale e, di conseguenza, ad accettarlo. Senza questo appoggio vedo che altri rimangono affascinati ma non riescono ad integrarsi.

Cosa ne pensi della situazione economica italiana? Come potrebbe migliorare?

Sono un tecnico e quindi l’economia non è mio punto forte. Però come imprenditore sarei favorevole alla revisione sostanziale delle normative per permettere alle aziende di rispondere più rapidamente alle richieste del mercato e ridurre il rischio legato all’investimento economico. Posso fare un esempio: ho collaborato per diversi anni con l’AS Roma quando il patron era Jim Palotta. Ero responsabile per il project management in Italia del nuovo stadio e l’iter d’approvazione applicato era quello conosciuto come la Legge sugli stadi. Questa legge, in teoria, limita i tempi d’approvazione del progetto definitivo a 6 mesi ma, nel nostro caso, i tempi erano molto più lunghi e, infatti, dopo due anni d’attesa per l’approvazione definitiva, il club venne venduto al nuovo proprietario Friedkin che poi cancellò il progetto. Posso solo immaginare quanti soldi e quante risorse (private e pubbliche) siano stati sprecati per finire nel nulla. Faccio anche un collegamento alla domanda precedente: in America, nello stesso periodo, è possibile progettare e costruire due stadi.

Quali sono i consigli che daresti ad un giovane?

Mi ritengo fortunato per aver spesso l’occasione di lavorare con professionisti giovani e stagisti universitari. Credo fortemente nel valore del contributo di tutti a prescindere dall’età. A me sembra che i giovani siano preoccupati principalmente dell’ambiente e delle incertezze nel mercato di lavoro ma indifferentemente al tema che interessa di più, cerco di far loro comprendere l’importanza dell’impegno personale nell’affrontare qualsiasi sfida. Credo che quando trovi il tuo lavoro piacevole, lo fai meglio e probabilmente sarà più redditizio, non solo in termini economici. L’altra cosa che ritengo importante è ricordarsi che tutte le esperienze sono significative, sia quelle “brutte” che quelle “belle”, perché si tratta di un bagaglio personale che rimane sempre con te. Quindi penso sia fondamentale esporsi a quante più esperienze possibili soprattutto quando si è giovani, ovvero quando i genitori possono ancora aiutare, (ride, ndr) e riflettere sui significati di ciascuna. Queste esperienze, ricordate con giudizio e astuzia, saranno fonte di maggiori successi nel futuro del proprio percorso lavorativo.

A cura di Stefano Rudilosso