Quando sfoglierà le pagine di Industria Como rileggendo la sua intervista, è altamente probabile che nel luogo in cui vive la temperatura sia prossima allo zero, il terreno sia completamente ghiacciato dalle piogge gelide, in attesa che arrivi la neve a coprirlo definitivamente fino alla primavera, e che il sole tramonti intorno alle 3 del pomeriggio. Lei è Arianna Minoretti da Trondheim, in Norvegia, protagonista di questa puntata di Comaschi da esportazione. Ingegnere capo nel dipartimento di Tecnologie e Sviluppo dell’Amministrazione pubblica dei trasporti norvegese, Arianna progetta imponenti e innovative opere pubbliche come il ponte di Archimede, una soluzione che esiste nel settore delle infrastrutture dei trasporti da oltre un secolo, ma mai realizzata se non in soluzioni ibride negli anni recenti. La Norvegia è stato uno dei primi Paesi a credere nelle possibilità offerte da questa soluzione e già dall’inizio del secolo scorso ha studiato, in modo più o meno approfondito, questa struttura proponendola per alcuni attraversamenti. Ma solo con gli studi per le applicazioni lungo la E39, la strada europea che percorre la costa ovest della Norvegia, lunga 1100 km attraverso la frastagliata costa, è stata dimostrata l’effettiva fattibilità dell’opera e proprio per questi studi l’Amministrazione norvegese ha voluto nel suo staff l’ingegnera strutturista comasca che senza timore ha accettato la sfida, trasferendosi da Erba su un fiordo a 500 chilometri a nord di Oslo.
Arianna, qual è stato il tuo percorso formativo?
Dopo il Liceo Scientifico che ho frequentato ad Erba, mi sono iscritta al Politecnico di Milano quando, in virtù del vecchio ordinamento, i primi due anni erano comuni e ho avuto l’opportunità di seguirli a Como, città a cui sono molto legata. Poi ho proseguito a Milano perché ho scelto civile ad indirizzo strutture, che era possibile frequentare solo nella sede principale di Leonardo da Vinci. Appena laureata ho iniziato a collaborare con il mio relatore di tesi, il Prof. Franco Mola, sia in ambito universitario che su veri e propri progetti lavorativi della zona di Milano come parcheggi interrati e poi ho iniziato una collaborazione, sempre attraverso il Professore, con uno studio di Madrid per un importante appalto per rifare i ponti ferroviari in Liguria, da Diano Marina ad Imperia. Serviva qualcuno che facesse calcoli ma sapesse anche gestire la parte di comunicazione a livello tecnico con l’organismo controllore Italfer.
Ancora oggi, l’indirizzo strutturista non mi pare sia caratterizzato da un’ampia presenza femminile. A cosa è dovuta questa tua scelta?
In effetti ricordo che in facoltà eravamo due, o al massimo tre ragazze. Per me, in realtà, è stata una via abbastanza semplice: ho sempre avuto il pallino della sicurezza nell’ambito delle costruzioni. Avevo il desiderio di progettare opere, in particolare, allora pensavo alle abitazioni, che potessero garantire sicurezza e quindi è stato abbastanza logico iscriversi all’indirizzo di strutture. Ai tempi non pensavo ancora alla sicurezza stradale o ferroviaria, mi preoccupava di più il concetto di sicurezza sismica per le abitazioni, ma in corso d’opera mi hanno affascinato le strutture da ponti e avendone avuto l’occasione mi sono cimentata in questa sfida nella libera professione.
Perché hai deciso di lasciare Como e, in generale, l’Italia?
Dopo dieci anni di libera professione, a fine 2013, colui che era mio fidanzato, e oggi marito, tornato da Sidney al termine del suo dottorato, mi comunicò che aveva ricevuto diverse proposte di lavoro, tra le quali una in Norvegia, forse la più complicata, che ovviamente scelse. Appurato che non fosse una fuga da me (ride, ndr) e considerato che il clima lavorativo in Italia nel settore costruzioni non era dei migliori, ragionammo insieme sull’opportunità di rivalsa che un’esperienza in un Paese estero, dove si percepiva maggiore attenzione al tema della sicurezza infrastrutturale, potesse offrirmi. E così decisi di cercare una posizione lavorativa adeguata sul sito internet NAV. Dopo qualche settimana, ricordo ancora che stavo uscendo dal Tribunale di Como dove facevo la consulente tecnica del giudice, trovai un numero strano sul cellulare: era quello che oggi è il mio capo, che mi propose di andare a sostenere un colloquio la settimana successiva a Trondheim. Avevo già i biglietti d’aereo in tasca perché senza saperlo prima avevo deciso proprio in quella settimana di andare a trovare il mio fidanzato, che già da mesi si trovava a Trondheim dove insegnava all’università. Mi sembrò un segno del destino e decisi di dare una chance a questa opportunità.
Hai incontrato qualche difficoltà, magari all’inizio della tua esperienza norvegese?
Sicuramente non fu facile lasciare l’Italia: dopo dieci anni di professione avevo assunto diversi incarichi e mi sentivo riconosciuta e apprezzata come professionista. Andare in Norvegia significava ricominciare da zero, con una lingua sconosciuta, il norvegese, e un inglese che non era la mia prima lingua, con strumenti di lavoro diversi e programmi nuovi. Ma ero conscia che non dovessi pensarci troppo. Però devo ammettere che, seppur la Norvegia non sia un Paese perfetto, mi sono trovata subito molto bene perché la mia mentalità basata sul principio del rispetto delle regole ha trovato il luogo ideale. Qui tutti rispettano ogni regola come fosse una cosa normale, senza nemmeno porsi il problema se esista un’altra strada per ottenere qualcosa. Qui ho trovato un settore pubblico molto attento alle spese, che evita sprechi, con un sistema trasparente che pensa ai soldi pubblici come ai soldi di tutti ed è orgoglioso di rispettarli diventando un vero e proprio padre di famiglia.
C’è mai stato qualche momento di sconforto, magari durante il lungo inverno scandinavo?
Sicuramente ce ne sono stati molti. Il primo anno la cosa più difficile è stata trovarmi lontano dagli affetti. Anche il clima, effettivamente, non aiuta: d’estate c’è una fantastica temperatura di 18–20 gradi, ma dura al massimo un mese all’anno. Tutto il resto è pioggia, ghiaccio e neve. Inoltre, trascorriamo almeno due mesi quasi completamente al buio. A questo vanno sommate le difficoltà dal punto di vista lavorativo: dopo il primo mese in cui mi parlavano in inglese, hanno iniziato a parlarmi in norvegese, una lingua con poche regole e tantissime eccezioni.
Che differenza hai riscontrato nel mondo del lavoro tra Italia e Norvegia?
Forse la principale differenza sta nella parità assoluta dei sessi in merito alla maternità: sia uomini che donne, qui, hanno diritto a prendere gli stessi mesi rispettivamente di maternità e paternità. Questo significa che per un datore di lavoro assumere un uomo o una donna è esattamente la stessa cosa. Credo che valga molto di più questa scelta legislativa rispetto a tanti discorsi sulla parità di genere. Un’altra grande differenza è l’idea di essere tutti uguali e di essere parte di un gruppo, un forte senso di comunità che si trasferisce anche in azienda. Certo, questo ha anche un limite, perché qui si nota la mancanza del classico lampo di genio tutto italiano. In Norvegia, inoltre, c’è il concetto dell’iperspecializzazione che ha anch’esso il suo lato negativo: qui c’è maggiore rigidità e spesso le persone non vanno oltre il loro settore specifico. Così come ci sono leggi sul lavoro molto severe, che impongono riposi e distacco in modo che ci si possa occupare della famiglia. E io in questo sono un disastro (ride, ndr) perché spesso lavoro molto più oltre le mie ore previste dal contratto e il software che rileva le ore lavorate lo segnala subito all’amministrazione, dalla quale parte subito la telefonata per sapere se va tutto bene.
Che opinione hanno i tuoi colleghi dell’Italia?
È bello nominare l’Italia: si aprono subito grandi sorrisi, perché molti norvegesi trascorrono le vacanze nel nostro Paese e spesso hanno anche la seconda casa. Ovviamente, tanto apprezzano il Paese del sole, tanto siamo considerati un Paese zimbello dal punto di vista politico. Purtroppo, noi italiani ci portiamo dietro un bagaglio di pregiudizi che dobbiamo abbattere usando tutta la nostra credibilità personale e, dopo, veniamo molto apprezzati, non solo per il sole.
Hai mai valutato l’idea di tornare, con la tua famiglia, a stabilirti in Italia?
In effetti, in questi ultimi due anni la lontananza si è fatta sentire tantissimo. Con il lockdown e la chiusura della Norvegia abbiamo molto valutato questa ipotesi, ma attualmente non è semplice immaginare una situazione lavorativa interessante per entrambi in Italia. Però, ci pensavo proprio in occasione dell’onorificenza che ho ricevuto un anno fa come Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia (il riconoscimento per gli italiani che danno lustro all’estero al nostro Paese, ndr), non nascondo che nella profondità della mia coscienza c’è il desiderio, che prima o poi si avvererà, di onorare questo premio e restituire in qualche modo qualcosa di concreto all’Italia.
Hai già pensato a quello che faresti come prima cosa?
Mi piacerebbe proporre un metodo scientifico che restituisca un monitoraggio in tempo reale del patrimonio infrastrutturale in modo da prevenire i disastri che sono avvenuti, come il Ponte Morandi o quello di Annone, e tutta l’economia e le persone che transitano sulle nostre infrastrutture possano farlo con assoluta sicurezza per gli anni a venire.
Quali consigli daresti ai giovani che magari stanno ancora studiando?
Ai giovani consiglio di scegliere un percorso di studi che rispecchi quello che davvero piace loro fare e non quello che la società dice sia il lavoro del momento, perché le cose cambiano e il lavoro lo dobbiamo svolgere per tutta la vita. Fare ciò che davvero piace è l’unico modo per provare ad essere bravo in quello che fai. Altrimenti diventa tutto più difficile, diventa quasi una prigione.
È vero che hai una newsletter periodica che mandi ai tuoi amici in Italia?
Tecnicamente è un blog realizzato con la piattaforma di WordPress che ho intitolato “Lettere dal nord”. Ad alcune persone che me l’hanno chiesto invio anche una mail periodica. Aggiorno il blog circa una volta al mese e ho iniziato per me, perché essendomi sempre piaciuto leggere e scrivere era un modo per sentirmi meno lontana. Per un caso, Beppe Severgnini ha letto una lettera e l’ha anche pubblicata sul sito del Corriere della Sera, e da lì è nato il sito su WordPress.
Ascoltare Arianna è come sentire una ventata di aria fresca dal nord Europa dove è normale parlare di inclusione, apertura mentale, apprendere che le sue due piccole bimbe si sentono italiane ma anche norvegesi, sapere che le loro amicizie spaziano in questa città viva, giovane e universitaria tra mille origini diverse come il Congo, Hong-Kong, il Ruanda, il Canada e molte altre ancora. E mentre l’ascoltiamo ci rendiamo conto che stiamo desiderando, finanche sognando questa integrazione, magari anche lo stesso investimento che la Norvegia fa sugli immigrati, la stessa mentalità aperta, anche per l’Italia. Ma poi, terminata la videocall, il sogno svanisce e ci ritroviamo nel nostro bellissimo ma contradditorio Paese del sole, delle vacanze e dei viaggi di nozze dei norvegesi.
A cura di Stefano Rudilosso