RATTI, 75 ANNI DI BELLEZZA, INNOVAZIONE E SOSTENIBILITÀ

Sergio Tamborini, AD di Ratti

Mani che toccano tessuti, che dipingono su di essi, che imprimono colori. Mani di uomo e di donna che tendono fili, piegano stoffe, individuano, controllano, scelgono. Basta guardare pochi minuti del bellissimo filmato che si apre appena si accede al suo sito internet, lasciandosi sedurre da musiche, colori, bellezza, per capire immediatamente che Ratti è un’impresa speciale. Grande, grandissima per i parametri italiani, ma ancora capace di esaltare il lavoro manuale, quasi artigianale, in un connubio perfetto con quello delle macchine. Capace di proiettarsi nel futuro senza mai dimenticare il passato, perché “la conoscenza del passato – suggeriva il suo geniale fondatore, Antonio Ratti – genera la nascita di nuove idee e crea nuove forme di bellezza”. Un imprenditore visionario, indimenticabile protagonista di un periodo storico florido, straordinario, per il nostro territorio, che con la dedizione al lavoro, l’amore per la seta e, soprattutto, per la bellezza, non solo ha reso importante la sua impresa, ma ha contribuito a portare il distretto tessile comasco a raggiungere fama mondiale. Fondata nel 1945, quando Antonio Ratti aveva solo trent’anni, affiancata quarant’anni dopo dalla Fondazione Antonio Ratti, strumento importante di promozione e divulgazione culturale, arricchita, altri dieci anni dopo, nel 1995, dall’Antonio Ratti Textile Center, uno dei primi centri specializzati nella ricerca e nel restauro del tessile collocato al Metropolitan Museum di New York, oggi l’azienda di Guanzate conta 799 dipendenti, è quotata alla Borsa di Milano e fattura oltre 110 milioni di euro. Presieduta da Donatella Ratti, guidata dall’Amministratore Delegato Sergio Tamborini, manager di grande esperienza aziendale e associativa, visto anche l’impegno in Sistema Moda Italia, di cui è Vice Presidente, e in Confindustria Como, in cui è componente del Consiglio Generale, Ratti ha intrapreso da tempo un percorso virtuoso diventando un vero e proprio modello di sostenibilità per il settore tessile. Basta entrare nella grande fabbrica di Guanzate, alle porte di Como, per percepire la portata di questo impegno: un enorme totem digitale dà conto, infatti, in tempo reale del risparmio di energia, con relativa salvaguardia dell’ambiente, derivante dalle azioni di sostenibilità messe in campo dall’azienda da oltre 10 anni, grazie ad interventi sui macchinari, sulle emissioni, sui consumi di acqua e di energia elettrica. Ed è proprio in questo iconico e sostenibile stabilimento, disegnato dall’architetto Caccia Dominioni, che incontriamo l’Amministratore Delegato Sergio Tamborini.

Dott. Tamborini, la rubrica in cui pubblichiamo la sua intervista s’intitola “imprese sostenibili”, ma non possiamo ignorare il momento difficile in cui ci troviamo. Il mondo intero è ancora in affanno a causa delle conseguenze dovute all’emergenza Covid-19. I flussi turistici esteri sono quasi completamente fermi e, inevitabilmente, gli ordini dei brand verso le imprese, in particolare del settore tessile, sono molto ridotti. Quali sono le strategie che Ratti sta mettendo in campo in questo momento così complesso?

Abbiamo pensato, per prima cosa, a tutelare i nostri collaboratori. Fin da subito abbiamo adottato tutti i protocolli più ferrei per scongiurare il più possibile i rischi di contagio all’interno dell’azienda. Naturalmente, la misurazione della temperatura, la limitazione agli accessi di estranei, tutti i presidi di sanificazione, e più recentemente abbiamo introdotto anche i braccialetti smart con il tracciamento di tutti i contatti in modo da verificare in tempo reale coloro che sono venuti a contatto con eventuali positivi e riuscire ad isolare le persone per cluster. Questo monitoraggio rappresenta uno strumento importante per la tutela sanitaria ma anche per trasmettere maggiore serenità a coloro che ogni giorno accedono nella nostra azienda. Oltre all’aspetto di tutela della salute, abbiamo messo in campo, naturalmente, anche azioni volte a sopperire la mancanza di contatto fisico con i clienti. Abbiamo fornito ai nostri commerciali strumenti digitali evoluti, dalle sale multimediali ai cosiddetti HoloLens2, uno strumento innovativo per creare e mostrare un mix tra la creatività del prodotto e la realtà virtuale. Abbiamo, inoltre, puntato molto sul processo di condivisione della creatività attraverso il sito CreativityNeverStops. Insomma, abbiamo adottato tutti gli strumenti più evoluti messi a disposizione dalla tecnologia per riuscire a proseguire il nostro lavoro. È stato un salto culturale importante che andava fatto, pena il declino, ma che di certo non può arrivare a sostituire completamente il contatto umano e la parte tattile che rappresentano un aspetto prezioso e imprescindibile di questo settore. Per fortuna l’area alta del lusso sta riprendendo, in particolare sulla parte del mercato cinese, mentre la parte più complessa è laddove mancano i flussi turistici.

Non da oggi, ma da molto tempo, la sua azienda ha sposato il tema della sostenibilità, portandovi a diventare un vero e proprio modello. Cosa significa, per lei, in sintesi, sostenibilità?

Ridurre le produzioni.

Ma come?

L’unica vera sostenibilità è consumare di meno. E, di conseguenza, produrre meno, solo quello di cui c’è realmente bisogno. Fino a prima di quest’emergenza eravamo in una condizione dove c’era il consumo per il consumo, direi quasi irresponsabile. Un vortice che sicuramente ha generato posti di lavoro, ma un sistema come quello non è sostenibile nel lungo periodo. Nel nostro settore tutto ciò che si poteva fare per ridurre i consumi di fonti naturali, diminuire le emissioni e molto altro, è stato fatto. Ora, o si va sui processi veri, compresi il post-vendita e le mancate vendite o altrimenti ulteriori passi avanti non se ne fanno. Tutto il settore tessile abbigliamento è di fronte alla sfida del post consumo da affrontare. C’è da affrontare l’importante capitolo della responsabilità del produttore sul fine vita del prodotto, contemplata anche in una recentissima normativa, che genererà una filiera del riuso che va tutta disegnata. Considerando che se perderemo posti di lavoro da un lato, quello delle produzioni, li guadagneremo in questo settore nascente del riuso.

È vero che le aziende green crescono di più?

Non credo sia la patente green a far crescere di più. Resto convinto del fatto che le aziende che per prime si sono poste il problema della sostenibilità ambientale, avessero al loro interno forti spinte alla crescita. Ponendosi quel tema se ne ponevano sicuramente anche altri che hanno sicuramente favorito le loro performance positive.

Avete investito anche su un manager dedicato alla sostenibilità?

In realtà noi abbiamo deciso di non avere un manager della sostenibilità, ma un team. Abbiamo un vero e proprio gruppo di lavoro dedicato alla sostenibilità perché questo è un tema trasversale che va comunicato e spiegato alle diverse aree dell’azienda e soprattutto non va calato dall’alto, ma va condiviso. Per cui abbiamo un referente della sostenibilità per ogni settore: dal commerciale alla produzione, dalla comunicazione ai processi.

È recente l’accordo con il colosso tedesco Freudenberg che avete chiamato “Second Life Fibers”. Di cosa si tratta e quali benefici porterà?

Si tratta proprio di uno dei processi innovativi che abbiamo introdotto in tema di sostenibilità e di economia circolare, sotto il cappello più grande che abbiamo chiamato Second Life e che oltre, appunto, al Fibers sviluppato con Freudenberg, prevede anche altre iniziative come il Print che grazie alla nostra capacità di stampa consente di valorizzare capi rimasti a magazzino del cliente, i cosiddetti over production, andando a creare capi diversi uno dall’altro e nuovamente vendibili. Il 2nd Life Fibers, invece, che abbiamo presentato a Première Vision dello scorso febbraio, ci consente di creare imbottitura di capi finiti, i giacconi, utilizzando scarti di seta di cui è nota la funzione estremamente isolante.

Un altro progetto che avete presentato al mondo tessile è la “Collezione Responsabile”. Quali sono le sue caratteristiche?

Abbiamo inserito Collezione Responsabile nel 2017 quando, dopo un percorso sulla sostenibilità fatto su più fronti, ambientale e sociale, abbiamo pensato alla sostenibilità del prodotto in funzione delle esigenze del mercato che venivano manifestate anche dai brand. Abbiamo lavorato su basi responsabili come cotone, seta e lana biologiche, per le quali abbiamo ottenuto anche importanti certificazioni come la GOTS, e prodotti riciclati come nylon e poliestere, per i quali stiamo lavorando per ottenere la GRS per i prodotti riciclati. Da questo lavoro è nata una capsule collection presentata a Première Vision che, nel tempo, è stata diluita in tutte le collezioni che sono diventate responsabili e oggi stiamo facendo una conversione del nostro prodotto a 360 gradi che chiamiamo offerta sostenibile.

Sembra davvero in controtendenza con il cosiddetto fast fashion, dove si guarda unicamente al prezzo del prodotto finito che arriva a costare meno della materia prima che voi acquistate in modo responsabile. Ma il vostro modello può resistere di fronte a questa deriva consumistica?

Siamo riusciti a reggere anche sul prezzo che questo prodotto richiede, attraverso una seria collaborazione con i maggiori brand, anche con alcuni di quelli che operano in fasce più basse del mercato. D’altronde la grossa differenza non l’abbiamo su nylon e viscosa derivanti da prodotti riciclati, ma principalmente sulla seta biologica che difficilmente arriva su fasce più basse di mercato.

Sostenibilità non è solo green, ma anche cura delle persone. Anche in questo siete un vero e proprio modello. Ci racconta qualche buona pratica?

Negli ultimi anni avevamo avviato numerosi progetti nell’ambito del welfare aziendale nell’ottica di una maggior conciliazione fra vita e lavoro, attraverso un’offerta di servizi alla persona. Abbiamo aderito al programma Healthy Work, per l’erogazione di misure a sostegno del nostro personale impegnato nella cura e nell’assistenza di figli minori, parenti con disabilità o anziani over 65. Abbiamo introdotto, a favore del personale, servizi per il benessere (fisioterapia, yoga, supporto psicologico), servizi di posta e lavanderia. Ospitavamo al nostro interno una volta a settimana un “mercatino” per la vendita di prodotti ortofrutticoli del territorio e abbiamo incentivato il car pooling del personale e installato al nostro interno colonnine per la ricarica gratuita di auto elettriche o ibride. Purtroppo, quest’anno, abbiamo dovuto interrompere molte di queste buone pratiche a causa dell’emergenza Covid, a tutela dei nostri collaboratori, e non sappiamo ancora quando potranno essere riattivate. Ora dobbiamo concentrarci sulla tutela della salute e la continuità aziendale.

Gli esperti sostengono che a un’azienda non basti adottare buone pratiche di sostenibilità. È fondamentale anche comunicarla. Condivide questa affermazione e cosa state facendo in questo senso?

Sicuramente la comunicazione è fondamentale per dare valore a tutti questi sforzi. Mi viene da dire che una delle più importanti forme di comunicazione che abbiamo adottato è stata la diffusione del nostro Bilancio di sostenibilità in oltre mille copie a tutti i clienti che sono i principali brand. Comunichiamo a loro ma, da un po’ di tempo, siamo andati anche sui social network dove intercettiamo un pubblico trasversale che riteniamo importante per una cultura consapevole del nostro impegno sulla sostenibilità. Tengo anche a sottolineare che abbiamo fatto tantissima comunicazione interna affinché tutti conoscessero il percorso importante che abbiamo intrapreso. Perché gli investimenti sono importanti, ma la sostenibilità viene anche del basso, da tutti coloro che lavorano nell’impresa, i cui suggerimenti teniamo in conto per andare a migliorarla ogni giorno.

Secondo lei la sostenibilità è un percorso individuale per ogni impresa o può esistere anche una sostenibilità di distretto?

Può anche essere un percorso collettivo, ma uscirei dai confini del distretto perché preferisco parlare di sostenibilità di sistema. La parola distretto riporta ad una visione troppo provinciale.

Lo scorso anno avete legato una bella iniziativa di volontariato ambientale a Legambiente. La distanza o, addirittura, la contrapposizione tra imprese e associazioni ambientaliste sembra essere diminuita se non completamente annullata. Cos’è cambiato?

Direi che è cambiata la cultura complessiva. C’è stata una crescita da entrambe le parti. Da un lato, infatti, gli imprenditori hanno compreso che la sostenibilità fa bene anche all’impresa e, dall’altro, le associazioni ambientaliste hanno capito che con certi modelli di sviluppo bisogna convivere. Questo fa sì che si stia valutando insieme di ipotizzare un sistema diverso e più virtuoso rispetto a quello basato sul consumo per il consumo di cui accennavo all’inizio.

A cura di Stefano Rudilosso