8 SECONDI: VIAGGIO NELL’ERA DELLA DISTRAZIONE

Benvenuti nell’era della distrazione infinita. Ad accoglierci in questa consapevolezza dei tempi nostri, o meglio, a togliere il velo dell’ipocrisia di una finta attenzione che possa oltrepassare gli 8 secondi, è Lisa Iotti, giornalista d’inchiesta, inviata per il programma “Presadiretta” di Riccardo Iacona, in onda su Rai Tre, speaker di TEDx, scrittrice di talento. Nata a Reggio Emilia, laureata in Lettere Moderne a Bologna, 50 anni splendidamente portati, Lisa Iotti è autrice del libro intitolato “8 secondi, viaggio nell’era della distrazione”. Un libro nato dalla puntata televisiva “Iperconnessi” che ha vinto il premio Goffredo Parise per il reportage, insieme ricerca scientifica e viaggio personale, quasi intimo. Ricco di dati, interviste e citazioni, cifra giornalistica dell’autrice, capace di girare il mondo per intervistare accademici di Università americane, leggere e accatastare in ogni angolo della propria casa pile di libri sul tema per dare supporto scientifico alle tesi riportate, il libro è, al tempo stesso, molto piacevole da leggere. Lisa Iotti avvince il lettore tenendolo incollato dalla prima all’ultima pagina, nemmeno fosse un giallo. Lo fa con una cura maniacale delle parole, da amante delle stesse, perché “le parole descrivono mondi” come sottolinea nella nostra conversazione. 240 pagine che si leggono d’un fiato perché è di noi che si parla. Lisa Iotti ci prende per mano e ci accompagna in un viaggio tra gli edifici dei campus universitari americani, ma anche nei meandri della sua coscienza che è la nostra coscienza, dei suoi automatismi che sono i nostri automatismi, delle sue perversioni tecnologiche che sono pari alle nostre. Inquieta perché ognuno può riconoscere se stesso e chi gli sta attorno nella quotidianità mentre, praticamente sempre, stringe fra le mani uno smartphone e, qualunque cosa stia facendo, dedica contemporaneamente ad esso gran parte della sua attenzione. Descrive, attraverso un dialogo accademico di una semplicità disarmante con i più importanti ricercatori al mondo in ambito psicologico e comportamentale, una comunità di persone iperconnesse, la nostra, che non sono più capaci di concentrare l’attenzione su quanto stanno facendo per oltre 8 secondi. Una soglia di attenzione inferiore addirittura a quella di un pesce rosso, che è di 9 secondi. E questo, ovviamente, a causa delle iper distrazioni dovute ai continui stimoli derivanti da cellulari, computer, smartwatch, social network, email, che inviano continuamente notifiche di ogni genere. Dopo aver visto la puntata di Presadiretta, assistito allo speech al TEDx di Reggio Emilia, letto il libro, invece che risposte abbiamo ancora tante domande e, per questo, ne parliamo, rigorosamente tramite videochiamata con il tanto vituperato computer, giusto per restare in tema, proprio con l’autrice.

Da dove nasce l’idea di un reportage, divenuto puntata televisiva, speech e libro, sulla soglia sempre più bassa di concentrazione dovuta all’iperconnessione?

È nata da un trafiletto che lessi qualche anno fa su Internazionale che suggeriva la lettura di un libro per 45 minuti al giorno, come fosse una sorta di terapia, un integratore da assumere, una medicina. Mi colpì molto. Allo stesso tempo riflettevo sul fatto che le persone tendono ad ascoltare sempre meno quando si sta parlando loro e sei costretta a concentrare in poche parole chiave il pensiero che vuoi esprimere. Devi farlo quasi attraverso slogan, perché dopo una manciata di secondi si attaccano al cellulare distratti dalle notifiche e, immancabilmente, pronunciano la famosa frase che tutti dicono in questa situazione “no, no, ma parla pure, ti ascolto”. È così diffuso questo fenomeno che sono arrivata al punto, e non è retorica, che quando mi capita di parlare con qualcuno che non sia distratto dallo smartphone, mi stupisco del fatto che mi stia ascoltando. Ho un momento di spaesamento. Non sono più abituata e mi preoccupo di cercare di dire le cose più intelligenti possibili. Siamo arrivati all’opposto di quello che dovrebbe essere la normalità. La terza cosa che mi aveva molto colpito era che incontravo continuamente persone che mi accusavano di essere sempre attaccata al cellulare, cosa che non nego, ma me lo dicevano mentre loro stessi erano attaccati al cellulare. Ho capito che non abbiamo più la percezione di questo fenomeno, perché io stessa, prima di questa ricerca, negavo di essere sempre al telefono, mentre lo ero, ad una persona che mi accusava di farlo mentre lei stessa era al cellulare. In questo corto circuito ho capito una cosa per me fondamentale: non abbiamo più la sensazione di alterità. Lo smartphone è diventato un’emanazione di noi, una continuazione. Non percepiamo più questa anomalia. Così come ci sembra assolutamente normale essere snobbati da chi abbiamo di fronte perché dedica la sua attenzione al telefono.

Nel libro sottolinei anche la scomparsa del sorriso.

Sì, è stato lo sprone definitivo a voler sondare il mondo al tempo degli smartphone e dei social. Quando ho iniziato a fare ricerche mi sono imbattuta in uno studio sperimentale della Georgetown University dal titolo Lo smartphone riduce i sorrisi tra gli sconosciuti. Una ricerca scientifica che dimostrava come gli smartphone possano inibire la nostra propensione a sorridere a sconosciuti in situazioni casuali, là dove sarebbe normale stabilire delle interazioni.

Effetti incredibili.

Sì. Non ci stiamo rendendo conto della profonda e quasi ineluttabile trasformazione antropologica a cui stiamo andando incontro. È molto più sottile di quello che possa sembrare. Pensiamo anche al concetto di attenzione: noi ormai siamo sempre altrove, ci manca la consapevolezza del qui e ora, dello stare sulle cose che stiamo facendo, la presenza. Ma oltre a questo c’è anche una mancanza di permeabilità. Essendo sempre risucchiati dai nostri device, la nostra mente non è più portata a vagare. Nel libro ho citato studi che mettono in evidenza l’importanza di momenti di pausa che in francese si chiamano di défaut, che giocano un ruolo fondamentale per il nostro equilibrio psicofisico, per la costruzione della nostra memoria, dei nostri processi cognitivi, del nostro benessere e dei nostri rapporti con gli altri. Il Prof. Eustache, a lui si devono questi studi, mette in evidenza come il nostro cervello quando non siamo focalizzati su nulla in particolare in realtà sta lavorando e quello che fa in questi momenti di pausa è per noi indispensabile. Smartphone e social ci hanno sottratto queste pause fondamentali. Un danno anche per la creatività, per il pensiero critico, per la memoria, per l’empatia.

Ma sono irreversibili questi effetti?

Uno degli esperti che ho incontrato, Michael Merzenich, professore emerito di Neuroscienze presso la University of California di San Francisco, è stato molto chiaro: tutto ciò che facciamo o non facciamo modifica strutturalmente il nostro cervello. O, per dirla in altro modo, ciò che non facciamo più, ciò che abbandoniamo, lo perdiamo definitivamente. Il nostro cervello si riorganizza. I circuiti neuronali si plasmano a seconda di come li usiamo. È dimostrato che il cervello è plastico e cambia a seconda dell’esperienza.

Per esempio?

Ogni volta che assegniamo a una macchina esterna una funzione umana, stiamo rimuovendo una capacità dalla nostra vita e dal nostro cervello. Pensiamo all’utilizzo dei navigatori per recarci da un luogo all’altro: eseguendo gli ordini della voce che ci guida non alleniamo più il cervello ad orientarsi e memorizzare. Altro effetto è il non essere più a nostro agio con la complessità. Noi siamo esseri che si sono evoluti pensando, mentre ora siamo completamente calati in un sistema che induce alla reattività, ma non al pensiero critico. Pensiamo sempre meno in termini logici e questo in parte ha a che fare con la velocità con cui andiamo sul telefono a trovare le risposte.

Ma se è così per noi che tutto sommato abbiamo vissuto anche un’epoca “preistorica” dal punto di vista tecnologico, com’è la situazione dei cosiddetti nativi digitali?

È seria, per non dire grave. Al punto che l’università Bocconi, il tempio degli studi economici e giuridici dove arriva l’eccellenza dei giovani, ha istituito nel settembre 2018 un nuovo corso: Pensiero Critico, obbligatorio per tutti gli iscritti dal primo anno. Ho incontrato il docente che lo tiene, il Prof. Canale, e mi ha spiegato che la motivazione risiede nel fatto che i ragazzi che arrivano all’università non hanno più familiarità con il ragionamento in senso lato, non sanno argomentare una tesi. Hanno un’idea in testa ma non riescono a strutturarla perché non conoscono le regole della logica. E questo ha a che fare con il tempo che passano online. Faticano persino a distinguere quello che è rilevante da quello che non lo è, non sanno più filtrare a causa del rumore continuo di fondo, un profluvio di parole, link, tweet, post, siti, che sommerge chiunque. Per questo negli anni successivi hanno inserito anche esami di letteratura, di arte, perché i docenti hanno capito che sono come dei vaccini che vengono somministrati ai ragazzi. Perché le grandi aziende dove andavano a lavorare i loro laureati, si lamentavano perché arrivavano ragazzi con competenze solo verticali, bravissimi nel loro segmento, ma incapaci di avere una visione, incapaci di unire i puntini.

Impressionante.

Sì, e sotto tutto questo c’è il grande equivoco di fondo: abbiamo confuso la facilità di accesso alla conoscenza con la conoscenza stessa. Invece è proprio l’opposto. Più questi strumenti digitali semplificano l’accesso ad una mole enorme e indefinita di informazioni e meno riusciamo a capire quali ci siano davvero utili o, peggio, siano vere. Stiamo allenando il nostro cervello all’irrilevanza.

Tornando al libro, già dopo poche pagine chi ne esce maggiormente a pezzi è il tanto celebrato, ai tempi nostri, quasi come qualità principalmente femminile, multitasking.

Il multitasking è la grande fregatura della contemporaneità. Non possiamo dimenticare che la produttività non è un valore indipendente dalla concentrazione e noi oggi siamo diventati distratti cronici. Le parole sono spesso ingannevoli e noi ci siamo cascati in pieno: non so come sia successo ma a un certo punto della storia abbiamo smesso di chiamare la distrazione “distrazione”, con tutto il carico negativo che si trascinava nel suo etimo – qualcosa che aveva a che fare con il separare, il disgiungere, il disgregare – e abbiamo cominciato a chiamarla multitasking, un termine preso a prestito dalle funzioni dei computer. Come se ormai fossimo la stessa cosa, noi e i sistemi operativi. Peccato che nemmeno il computer riesca a fare due cose assieme: è la sua velocità estrema nel farle, che ce lo fa credere. Ma si tratta sempre di due attività separate. Sul multitasking ci sono ormai un sacco di studi al mondo che dimostrano che, a meno che tu non stia facendo due operazioni estremamente automatiche e semplici, non si possano fare due cose nello stesso preciso momento. In realtà, come mi ha riferito la professoressa Gloria Mark dell’Università della California, quello che davvero facciamo è continuare a switchare, alterniamo avanti e indietro, rapidissimamente. Questo significa però rifocalizzare ogni frazione di secondo la nostra attenzione e nel corso della giornata il task switching si accumula e diventa stress. E lo stress ha costi enormi per la nostra attenzione e per il nostro cervello. Con ricadute negative, ancora una volta, sulla produttività e sui margini di errore.

Tra gli aspetti che maggiormente inquietano all’interno del libro, c’è lo studio secondo il quale lo smartphone distragga non solo quando invia notifiche, e fin qui è quasi un’ovvietà, ma persino quando è messo in modalità completamente silenziosa, chiuso in un cassetto lontano qualche metro da noi. Perché?

Ce ne sono vari di quegli studi e hanno tutti dimostrato la stessa cosa: il cellulare ti risucchia il cervello anche quando non lo usi, anche quando è spento, anche quando sta chiuso in un cassetto. Questo perché il nostro cervello associa a quella macchinetta una serie di stimoli, di impulsi di dopamina. Abbiamo talmente allenato i circuiti deputati al piacere immediato dato dai like, dallo schermo, che non possiamo più farne a meno. È famosa quella frase che dice “la compulsione è nell’azione e l’ossessione è nella testa”. Nel caso dello smartphone si crea un meccanismo ambivalente, subdolo e dannoso: da un lato la produzione dell’ormone del piacere, la dopamina a livelli industriali, e dall’altro l’ormone dello stress, il cortisolo, dato dal continuo scrollare, dall’attendere la notifica che non arriva. Continui stimoli opposti che attivano ambiti ormonali che non possiamo sottovalutare, soprattutto in un momento come quello che ci attende, per colpa del virus, in cui ci troveremo con questi oggetti in mano per 10 – 12 ore al giorno.

Dovremmo forse allontanarci da tutta questa tecnologia? Tornare indietro a quando non esisteva?

No, non voglio affermare questo. Nessun luddismo dell’anima. Credo che sia ridicolo. Conosco perfettamente, e li sfrutto appieno, gli insostituibili vantaggi della tecnologia, che nessun sano di mente potrebbe negare. Però dobbiamo prendere consapevolezza non tanto di quello che stiamo guadagnando, ma di quello che stiamo perdendo. E, dopo averne preso consapevolezza, riuscire a sviluppare gli anticorpi, inocularci un vaccino per utilizzare bene queste grandi risorse. Dobbiamo cercare strategie minime di sopravvivenza. Penso soprattutto ai giovani: siamo arrivati al punto che una mia amica ha scoperto la figlia di dieci anni che interrogava Siri (l’assistente vocale digitale creato da Apple, ndr) per scrivere un tema sul libro Piccole donne. “Siri, dov’è ambientato Piccole donne?”. E per lei era assolutamente normale. Così come è normale per gli adolescenti di oggi pensare che ci sia un’app per risolvere qualsiasi problema. Siamo arrivati ad una semplificazione dell’universo per cui si ha la sensazione di essere in possesso di una sorta di potere magico. Ma in realtà non è così. È come se mancasse il senso del limite. Ma, senza scomodare Socrate, il limite è un concetto fondamentale. I limiti sanno anche essere una benedizione. Perché rappresentano uno stimolo ad impegnarsi per cercare di superarli. Se, invece, si è convinti che basti un click per risolvere qualsiasi necessità, abbiamo un problema serio. Perché non è importante solo trovare le risposte, ma anche porre le domande. Se non ti poni delle domande, come pensi di progredire?

Quindi, come la definisci alla fine del libro, la buona notizia è che dipende da noi.

Se pensi che relazionarti con empatia con gli altri, saperti muovere nella complessità del mondo, saper ascoltare, capire, siano un valore, allora puoi adottare delle strategie per limitare i danni che alla lunga questi strumenti provocheranno.

Quali?

In un sistema che si basa sui click, ed è questo il vulnus di tutta la storia, che muovono interessi economici pazzeschi, non è certo semplice dominare le tecnologie. È da illusi pensare di tenere tutto sotto controllo, quando il nostro piccolo cervello si deve scontrare con sistemi artificiali creati dai migliori ingegneri del mondo. Ma qualcosa possiamo davvero tentare. Alcune strategie sono ovvie come togliere le notifiche, anche se poi, come dicevamo, il desiderio di andare a controllare resta sempre. Altre sono meno scontate e anche più difficili da rispettare, come non andare a dormire attaccati al telefono, non rispondere sempre immediatamente ai messaggi che riceviamo perché continuiamo ad allenare unicamente le aree del cervello che stimolano la reattività. Non mettere il telefono sul tavolo durante una riunione, perché stiamo già mandando un messaggio non verbale al nostro ospite. Dobbiamo imparare a prenderci delle pause costringendoci a fare attività che allenano il cervello ad andare lento, come leggere in modo attento un libro appena svegli al mattino e prima di andare a dormire, allenando così il sistema cognitivo 2, quello che governa la complessità, l’ordine, la profondità delle cose. E, come dicono i monaci buddhisti da duemilacinquecento anni, riservandoci qualche momento, ogni giorno, per la meditazione, accogliendo il vuoto, ascoltando il nostro respiro. Il modo migliore per far affiorare idee e creatività.

A quando e, soprattutto, su cosa sarà il tuo prossimo libro?

Non so se ci sarà un prossimo libro… ma grazie per la domanda.

Dopo aver letto questo, noi lo speriamo.

A cura di Stefano Rudilosso