ELENA PIRONDINI, DA COMO A NEW YORK PER LE NAZIONI UNITE

Dopo gli esordi come consulente nel settore privato per una società americana con sede a Milano, Elena Pirondini vola a New York dove inizia a lavorare per l’ONU. In 15 anni di carriera alle Nazioni Unite ha rivestito vari ruoli, occupandosi della ristrutturazione di due agenzie, di riforme e salute, di partnership e change management. È parte dell’Advisory Board dell’Andrea Bocelli Foundation.

Dott.ssa Pirondini, può introdurci brevemente la sua esperienza in Italia e poi all’estero?
Ho frequentato il Liceo Classico Alessandro Volta a Como e poi mi sono laureata in Economia Aziendale alla Bocconi. Subito dopo la laurea, ho vinto una borsa di studio della Fondazione Cariplo per frequentare un corso sul management delle organizzazioni non- profit presso la New York University e ho fatto una internship presso la Ford Foundation. Tornata in Italia, ho cominciato a lavorare per la società di consulenza direzionale A.T. Kearney a Milano, occupandomi soprattutto di progetti di strategia e cambiamento organizzativo. Durante i sette anni in cui sono rimasta con A.T. Kearney, ho preso un periodo sabbatico di due anni per poter frequentare un Master in Business Administration alla Harvard Business School a Boston. E poi, nel 2005, il grande cambiamento: mi sono trasferita a New York, per lavorare all’Organizzazione delle Nazioni Unite, dove ancora mi trovo. In questi 15 anni ho rivestito ruoli diversi, tutti molto motivanti e, in qualche modo, in linea con il mio passato di consulente nel settore privato. Mi sono occupata di change management e ristrutturazione; sono stata lo Special Adviser sui temi del management ad un Assistant Secretary General; sono stata il Project Coordinator del più grande programma di salute riproduttiva delle Nazioni Unite; e mi sono occupata di partnership con il settore privato, ossia aziende, fondazioni e individui. Recentemente, sono ritornata alla mia passione iniziale, ossia il change management e la riforma istituzionale, temi cruciali in contesti complessi e di grande cambiamento come quello attuale.

Come è riuscita a trovare il primo lavoro all’estero?
Il primissimo lavoro, con la Ford Foundation, l’ho trovato grazie alla Fondazione Cariplo da cui – come ho detto – ho ricevuto una borsa di studio che mi ha permesso di frequentare un corso presso la New York University a cui era abbinato uno stage. Il lavoro all’ONU, invece l’ho trovato in maniera del tutto inverosimile: facendo domanda online sul sito delle UN. Quando mi hanno chiamata per fare i colloqui pensavo si trattasse di uno scherzo. Invece, ho partecipato ai colloqui al telefono, ho ricevuto un’offerta, e nel giro di tre mesi ho lasciato tutto a Milano e sono partita per New York. È successo tutto in maniera inaspettata e velocissima.

Che differenze ha riscontrato nel mondo del lavoro tra Italia e Stati Uniti?
Gli americani con cui interagisco – basati a New York, nel mondo corporate, della finanza e dei servizi professionali – sono definiti dal loro lavoro, mettono spesso la carriera prima di tutto il resto, sono estremamente focalizzati sui risultati, obbediscono alle regole, sono molto competitivi in maniera diretta e trasparente e difficilmente considerano gli errori come dei fallimenti (una delle qualità importanti alla base dell’imprenditorialità americana). Sono spesso malati di “eccezionalismo” e si sentono i “numeri uno” in ciò che fanno. In Italia lavoravo comunque per una società americana e ho quindi riscontrato parecchie somiglianze in termini di professionalità e orientamento ai risultati. Rispetto agli americani, direi che i miei colleghi a Milano erano meno ossessionati dal lavoro, più creativi e sicuramente dotati di maggiore senso dell’umorismo. Il mondo lavorativo dell’ONU è una terza tipologia di ambiente ancora. Il mandato dell’organizzazione è – ovviamente – importantissimo. E i funzionari sentono il proprio lavoro come una vera e propria missione. Molti dei miei colleghi hanno avuto esperienze eccezionali, lavorando spesso in contesti veramente difficili. Certo poi, è anche un mondo molto politico e, in alcuni aspetti, burocratico. Richiede una grande capacità di navigare con tatto e diplomazia. Una fondamentale attenzione alle regole, essendo l’organizzazione finanziata per lo più da fondi pubblici. E, ovviamente, trattandosi dell’ambiente multiculturale per eccellenza, la capacità di apprezzare e rispettare culture molto diverse.

Ha incontrato difficoltà all’inizio?
In realtà, no. New York l’ho sempre amata e mi ci sono sempre sentita a casa, dalla prima volta che ci sono andata a 16 anni. E all’ONU mi sono inserita senza problemi, anche perché, sin da quando ero bambina, ho avuto amicizie molto internazionali e mi sono abituata ad apprezzare e rispettare le diversità.

Quale atteggiamento bisogna avere per affrontare un’esperienza così importante?
Bisogna sicuramente non avere paura di cambiare rispetto a ciò che già si ha e avere sempre molta curiosità. Ed essere seri, senza però mai prendersi troppo sul serio, altrimenti le difficoltà diventano insormontabili.

Cosa ne pensa della situazione economica italiana? Come potrebbe migliorare?
Questo non sarà certo un anno facile per l’Italia. Ma neanche negli Stati Uniti. In Italia servirebbero certamente meno burocrazia e maggiore flessibilità.

Un Photo/Manuel Elias

Ha in previsione di rientrare in Italia? Se sì, in quale campo vorrebbe operare?
Sì, prima o poi vorrei tornare in Italia, trovando magari anche il modo di tenere un piede a New York. Sicuramente, mi piacerebbe avere un ruolo di utilità pubblica, lavorando per organizzazioni pubbliche o private su qualche progetto che possa aiutare a far crescere l’Italia.

Che opinione hanno i suoi colleghi dell’Italia?
Onestamente, all’ONU non si parla molto dell’Italia nello specifico, essendoci altri 192 Paesi Membri. Detto questo, sicuramente l’Italia è un importante donatore per l’ONU – anche se con differenze importanti a seconda delle aree di intervento – ed è riconosciuta come tale. E gli italiani – non lo dico come vanto per me, ma come riconoscimento per i colleghi – si distinguono quasi sempre per grande professionalità e risultati. Poi, ovviamente, nessuno dirà mai che l’Italia è il Paese più bello del mondo (sarebbe politically incorrect) ma in molti sicuramente lo pensano e vorrebbero essere al mio posto quando vado “a casa”!

Quali sono i consigli che darebbe ad un giovane in procinto di scegliere un percorso universitario?
Di scegliere qualcosa per cui si ha passione, di non vedere mai niente come definitivo (sicuramente il corso di laurea è importante, ma non deve predeterminare quello che una persona potrà fare più avanti), e di cercare il più possibile di internazionalizzare il proprio CV con scambi universitari ed esperienze di tirocinio all’estero. Sicuramente, poi, di cogliere ogni possibile opportunità di imparare cose nuove.

Come sta vivendo la situazione COVID a New York e come la affrontano i newyorkesi?
Siamo abbastanza provati. Prima il COVID e il lockdown, poi le proteste contro il razzismo, i saccheggi e il coprifuoco. Abbiamo veramente passato un brutto periodo.La città non è più la stessa. In giro ci sono sempre più homeless, tossicodipendenti e gente varia dall’aspetto poco rassicurante. Per la prima volta in 15 anni, non la sento più come una città sicura. Qui il COVID è stato, oltre ad una crisi sanitaria ed economica, anche un fenomeno con fortissimi connotati sociali. È andato ad esacerbare disparità fortissime. Questo sarà il vero problema andando avanti, e la vera sfida da risolvere, soprattutto in un anno in cui tutto è amplificato dalle elezioni. Ora la città sta lentamente riaprendo, e qualche battito minimo di energia comincia a risentirsi ma mi domando quanto ci vorrà perché New York possa tornare ad essere la città che non dorme mai e a pulsare di vita e di energia. Quello che so è che i newyorkesi sono duri, tenaci e resilienti, e voglio credere, come ha detto il Governatore Cuomo, che “We are going to get through it because we are New York tough” (“Supereremo questo momento perché siamo tosti, come lo si può essere solo a New York”).

A cura di Stefano Rudilosso