“Io sarò sempre libero. Per me essere intellettualmente libero significa poter dire quello che penso. Purché sia la verità. Se mi devo attribuire un merito è quello di aver potuto scegliere le aziende che mi lasciassero libero di intraprendere. E laddove non mi sono sentito libero me ne sono andato. So di essere un amministratore delegato che gestisce tanti poteri, ma lo faccio in punta di piedi in casa altrui. Libero non vuol dire anarchico. Vuol dire mettere uomini e donne attorno ad un tavolo, dire come stanno le cose e lavorare insieme per migliorarle”.
Antoine Mangogna, protagonista di questa puntata di Comaschi d’adozione, è abituato a parlare chiaro. A vivisezionare il concetto con la precisione del chirurgo. È diretto, rigoroso, quasi spietato nella ricerca della verità. Ossessivo nell’analisi puntuale di ogni aspetto che riguardi l’azienda o la sua figura. Non recita una parte. Non finge. Mai. Lui è quello che si vede, quello che si ascolta dalle sue parole. Merito, probabilmente, anche di un trascorso militare durante il quale preparava i civili a vestire la divisa militare.
Francese – anzi parigino – per nascita, inizia gli studi a Tunisi, dove si trovavano, in conseguenza della Seconda guerra mondiale i genitori e i nonni, cittadini italiani, e li termina a Parigi in una delle più prestigiose business school, l’Institut Supérieur de Gestion. Oggi Mangogna guida, dalla posizione di CEO, la Saati Spa di Appiano Gentile, azienda specializzata in tessuti tecnici per diversi segmenti di mercato , grazie ad un azionista e presidente illuminato, Alberto Novarese, che lo ha voluto con lui per prendere per mano i 900 collaboratori di questa multinazionale e portarla al successo. Proponendogli un contratto a vita che Mangogna ha accettato. “Non solo perché Novarese è l’azionista ideale, ma anche perché – afferma il CEO – in questo modo posso esercitare al meglio quella forma di intraprenditoria così lontana dal tipico manager che spreme l’azienda per lavorare solo per se stesso, avere risultati a brevissimo termine e, magari, andarsene dopo poco tempo. Una modalità, invece, così vicina, all’imprenditore che pensa, ogni giorno, ossessivamente, al modo per perpetuare negli anni la sua creatura”. Una forma di “intraprenditoria” che Mangogna pretende da tutti i suoi collaboratori: da quelli più stretti, gli N-1, come li definisce, fino agli ultimi assunti.
Dott. Mangogna, qual è il segreto per riuscire a gestire con successo un’impresa importante come Saati?
Nessun segreto. È questione di metodo e di carattere. La coabitazione in me fra il fattore umano e la determinazione per raggiungere gli obiettivi crea in Saati un’atmosfera ben specifica che si ritrova nei valori: il senso della verità, lo spirito di squadra, la passione, la creatività. Amo ripetere che in me l’uomo non ha mai lasciato il passo totalmente al manager o, se preferisce, il manager non ha mai preso il sopravvento sull’uomo.
Cosa intende?
Significa che so e devo essere manager, quindi avere una visione, saper gestire, amministrare, ma fare tutto questo e molto altro mantenendo fortissimo il fattore umano. Nel mio caso devo dire che non è uno sforzo, e nemmeno c’è una scuola per imparare ad essere così. Io sono così. E non ho voglia di cambiare.
Com’è iniziata la sua esperienza in Italia?
Le mie origini non mentono: ho in me sangue italiano e cultura francese. Mi vanto spesso di dire che sono capace di fare giochi di prestigio sfruttando il meglio di entrambe. Ma, venendo alla sua domanda precisa, devo dire che probabilmente le mie origini hanno influito sulla scelta che una volta laureato avrei dovuto compiere. Il pregio dell’ISG è quello di prevedere un programma multinazionale, per cui io mi sono laureato a Parigi, New York, Tokio e Seul negli anni ottanta. Avevo poco più di vent’anni e vedevo il mondo con gli occhi di Akio Morita con il suo libro sulla Sony e sentivo il vento dell’innovazione asiatica. Ma alla fine, nel 1989, dovendo decidere tra due opportunità che mi aveva proposto un professore dell’ultimo anno di università, una banca di Hong Kong e l’Italia, ho scelto la seconda. E qui ho cominciato il mio percorso professionale nella filiale italiana di un gruppo francese nel mondo dei metalli e minerali non ferrosi. L’Italia mi affascinava, era la terra dei miei avi, ma era anche una potenza economica. E l’Italia mi ha dato tutto. Mi ha dato famiglia, affetti, carriera, un lavoro che adoro. Mi ha portato fortuna ed è un Paese che reputo straordinario. Un Paese che ipnotizza.
Ha incontrato difficoltà in quanto proveniente da un Paese straniero all’inizio? Se ce ne sono state, quale atteggiamento ha avuto per superarle?
Il primo approccio può presentare complicazioni. È complicato (ad esempio) ottenere una linea internet, è complicato avere le infrastrutture di base. Ma sono dei cliché. Bisogna lottare. L’Italia si deve meritare. Chiunque abbia vissuto qui ottiene un vantaggio competitivo: impara a risolvere i problemi molto meglio di tanti colleghi stranieri che nei loro paesi non hanno mai sperimentato. Una vera e propria ormési, tipica di chi assume un veleno in piccole dosi e sopravvive a dosi sempre più massicce. Stando qui credo di aver ottenuto quella cosa che io chiamo l’agilità strategica. Che è ancor meglio della resilienza. Significa resistere ma vincere!
Ci sono aspetti positivi nell’operare in Italia?
Assolutamente sì. E sono gli italiani. Il mio modo di essere manager in Italia funziona. Essere così in Francia sarebbe diverso. In questa parte di Italia che conosco meglio ho trovato una grandissima voglia di dare, di lavorare. Devo costringere i miei colleghi a prendere le ferie, altrimenti starebbero qui sempre. L’Italia è un Paese molto laborioso. L’imprenditorialità è connaturata.
Crede che la provenienza da una cultura e da un Paese diversi, possa averle offerto una visione utile a svolgere meglio il suo lavoro?
Nel mio caso le confesso di no, perché la mia crescita professionale è avvenuta quasi completamente in Italia.
Possibile, nemmeno la sua formazione francese ha influito?
Adesso che mi ci fa riflettere, devo ammettere che il metodo appreso nell’università francese, in questo molto diversa da quella italiana di allora, mi è molto servito. L’aver preso un ventenne e avergli fatto girare il mondo, avergli fatto fare stage in città importanti come New York, Tokio e Seul, ha significato ottenere una visione e un metodo che solo quel programma di studi poteva darmi. Uscire da un’università francese vuol dire essere operativo. La parola “stagiaire “ è francese, non è inglese. E, quindi, in Italia ho portato metodo che ho esercitato fin da subito. E questo metodo è stato la mia fortuna. Ero operativo, aggressivo. Avevo una competenza internazionale che da subito era stata colta dal direttore della filiale in cui ho iniziato.
In che senso era aggressivo?
Sono sbarcato in Italia da solo, su una vecchissima Renault 5 rossa sbiadita, con una pentola a pressione, un asse da stiro e il mio bagaglio. Al mio primo colloquio di lavoro, quando il direttore che doveva decidere la mia assunzione mi chiese cosa volessi fare nella vita, io lo guardai e gli risposi al limite dell’incoscienza: “Prendere il suo posto un giorno!”. Ma ho avuto fortuna. Perché se avessi trovato di fronte a me il dirigente medio italiano degli anni Ottanta (e non solo italiano), io non sarei qui a raccontarle questo aneddoto. Invece ho trovato un illuminato che mi ha detto: “Bene! Nessuno meglio di me ti potrà insegnare a farlo”. Vede: questa non è fortuna? E ho ancora rapporti con lui come con altri dei miei grandi maestri. Non manco mai di ricordare questo episodio quando ho davanti a me un ventenne ambizioso. Avevo e ho conservato un senso permanente di curiosità. Oggi potrei riassumere il mio percorso come una cassa degli strumenti di varie esperienze professionali.
Ha mai pensato di tornare a lavorare nel suo Paese di origine?
Per due volte sono tornato in Francia con l’obiettivo di crescere ma una volta consumata la crescita sono ritornato in Italia per monetizzare il miglioramento (e ride, ndr). L’Italia mi mancava. Mi mancava il magnete. Mi mancava il fattore umano, quella magia che solo l’Italia può dare.
Cosa pensano i suoi colleghi francesi dell’Italia?
Sono sentimenti contrastanti. Ci sono quelli che passano e quelli che stanno. Se conosci questo Paese non puoi non amarlo. Se lo sorvoli e non ti fermi potresti perdere qualcosa e non capirlo. Questa è la differenza e vale per qualsiasi gruppo etnico, oserei dire in qualsiasi posto del mondo. L’Italia va conosciuta, va apprezzata. Pensi che i colleghi italiani al tempo del mio arrivo mi chiedevano: “ma perché sei venuto in Italia. Sembri uno che, al tempo del muro di Berlino, dalla Germania ovest passa nella DDR”. E io non capivo! L’italiano spesso si trascina un inutile complesso di inferiorità rispetto ad altre nazioni, e una utilissima xenofilia che gli permette di essere sereno in qualsiasi posto del mondo. Ma non ha bisogno di trascinarsi questi cliché. Quello che fa davvero la differenza a favore dell’Italia è l’intelligenza sociale.
È difficile fare impresa in Italia?
Se facesse un sondaggio tra gli imprenditori italiani, almeno il 50% degli intervistati risponderebbe di sì, a causa delle tasse, della burocrazia, dell’accesso al credito. Vede, rimanendo sempre sulla vena “fortuna”, ho sempre lavorato in aziende medio grandi dove l’accesso al credito non era complesso perché erano liquide e capitalizzate. Per cui la complessità del fare impresa in Italia dipende moltissimo dal fattore dimensionale e dalla capacità innovativa. Cioè dal prodotto che hai in mano e dalla struttura che amministri. Avendo questi fattori, non si può negare che l’Italia offra supporto. Pensiamo al tema del 4.0, e ad altri sostegni. L’Italia ti dà aiuti. Ma devi meritarteli. Se tu hai lavorato bene, hai investito, se tu imprenditore hai spinto il cursore famiglia-azienda verso l’azienda, capitalizzandola, investendoci, credendoci, e se hai raccolto risultati, allora in Italia ci sono le possibilità per ricevere gli aiuti. Certo che se il modello imprenditoriale è ancora quello degli anni 70 è ovvio che si fa fatica. Ma non solo l’Italia fa fatica. Persino la Cina fa fatica. E allora bisogna prepararsi. Soprattutto le nuove generazioni. In questo momento la mia attenzione è attratta tantissimo da come si intende preparare i giovani ai cambiamenti.
Quali sono i consigli che darebbe ad un giovane?
Ai giovani dico di mangiare l’azienda: mangiàtela.
Suona molto bene, ma cosa intende?
Viverla intensamente. Questa azienda glielo permette. Perché per noi è fondamentale. Quando ero studente ho ricevuto pochi consigli. Io però oggi ad un giovane studente chiederei: tu hai scelto il ramo giusto? Se tu sei uno studente, se hai un tool come internet che io non avevo, non puoi sbagliare la scelta che fai. Se tu vuoi vincere, se hai fame, vai su internet e vai a capire anche tu quali sono le tendenze a venire, vai a vedere dove va il mondo, proiettati e frequentalo, sii curioso. Altrimenti non hai scusanti se non ti prepari per quel mondo lì. C’è un unico modo di esistere: è essere il migliore. Altrimenti non venire a lamentarti del destino che hai. Se capiti in Saati e tu sei questo, io e il resto dell’azienda ti faremo volare. Non siamo l’azienda che paga di più ma siamo tra quelle che forse fa sognare di più.
Quali sono le azioni che sta ponendo in essere oggi per garantire l’esistenza dell’azienda tra 20 o 30 anni?
Chi fa il mio mestiere deve essere attento a tre cose: alle persone che compongono l’azienda in primis, dando loro una visione e una missione chiara, essendo molto attento a cavalcare, rispettare e ispirare i valori della società. La seconda cosa è lavorare a quella che definisco “anti-fragilità” che in Saati è possibile anche grazie ad un imprenditore illuminato, che ci consente di essere intraprenditori. Esponendo l’azienda al fattore rischio, ormesi, accumulo di resistenza e resilienza, portano a vincere. Terzo elemento è avere la capacità di guardare da novantamila piedi quello che accade nel mondo, e avere la grande volontà di capirlo, di informarsi, di leggere tantissimo, di coltivare senza tregua questo fattore. È fondamentale capire i mega trend, cercarli, avere la capacità di capire che nel 2030 la popolazione supererà gli 8 miliardi e mezzo di individui e immaginarne gli inevitabili impatti sui mercati e quindi per Saati capire che il ruolo di un’azienda oggi, oltre a creare l’indispensabile valore per l’azionista, è anche quello di creare valore umano per chi si batte quotidianamente e per le generazioni Millennials e Zeta che stanno arrivando. L’azienda per loro non sarà più un posto di lavoro ma un punto di riferimento, il posto dove tu vai a lavorare se sei ispirato, e se chi ti guida non ha una visione a lungo termine, non ti ispira e te ne vai. Le persone devi prima capirle, curarle, avendo la capacità di gestire oggi tre generazioni in azienda, e a breve ben quattro in modalità “adaptive”. A un giovane quattordicenne di oggi io, tra dieci anni, dovrò essere capace di dire che i prodotti che Saati fa sono sostenibili, altrimenti non li comprerà. Se uno vede tutti questi fattori e li integra in un contesto internazionale iper complesso allora sta preparando l’azienda.
Il fattore umano torna sempre…
Sicuramente. Il benessere in azienda è fondamentale. Mi motiva lavorare con l’obiettivo di far sì che la domenica sera i miei colleghi possano essere felici di tornare in azienda il lunedì. Per questo, secondo me come ho già detto il manager e l’uomo devono camminare di pari passo. È il mio modello di leadership. Per coltivarlo, confesso di non temere di copiare. Il caffè col CEO, ad esempio, si ispira a Google. Una o due volte al mese, invito un collega (solitamente N-2) a condividere un caffè nel mio ufficio. La regola è molto semplice: per un’ora discutiamo senza segreti di temi scelti dal mio ospite e le cose rimangono qui, ma ci conosciamo più di prima. È un’esperienza che arricchisce molto.
E noi, che siamo stati di fronte a Mangogna per più di un’ora per scrivere questa intervista, possiamo affermare senza dubbio che l’imprenditore illuminato Novarese ha incontrato un CEO illuminato.
A cura di Stefano Rudilosso