Maria Anghileri: intervista alla Presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria

Nell’intervista rilasciata per questa edizione del magazine, la Presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria Maria Anghileri parla delle sfide più urgenti, del ruolo delle nuove generazioni per costruire un futuro di sviluppo e delle strategie necessarie per la crescita. Al centro dell’attenzione anche i valori che contraddistinguono il Movimento che guida dal 2024.

Presidente, quali sono, secondo lei, i principali valori aggiunti del Gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria e in che modo la “contaminazione” tra imprese diverse favorisce la crescita e la nascita di nuove sinergie?

Il Movimento è una grande palestra nazionale di confronto e leadership, un network che mette in relazione imprese diverse e crea un patrimonio di contatti, scambi e collaborazioni che difficilmente una singola azienda riesce a costruire da sola. Far incontrare settori e modelli differenti aumenta la probabilità di trovare soluzioni nuove a problemi simili, sviluppa visione, responsabilità e capacità di leggere i cambiamenti epocali che stanno toccando lavoro, tecnologia e mercati. La contaminazione funziona perché rompe l’abitudine a ragionare in verticale: una tech può imparare dalla manifattura su processi e qualità e un’azienda manifatturiera può imparare da una di servizi su organizzazione e gestione delle persone. Questa circolazione di pratiche riduce tempi e costi di apprendimento e accelera il miglioramento. Inoltre, la rete GI favorisce la nascita di sinergie operative: progetti condivisi, collaborazioni di filiera, iniziative territoriali, scambi commerciali e internazionalizzazione. Sono molto orgogliosa di questa nuova generazione di imprenditori perché è quella che sta contribuendo a reinventare il Made in Italy con entusiasmo e competenza.

Entrando nel merito delle sfide future: cosa serve oggi ai giovani imprenditori per diventare realmente competitivi sui mercati internazionali e quanto è urgente avviare un piano di digitalizzazione diffuso che acceleri l’adozione di nuove tecnologie e intelligenza artificiale nelle nostre aziende?

L’innovazione è il primo driver di competitività, soprattutto quando ci confrontiamo con i mercati internazionali ma le competenze digitali in Italia mostrano livelli ancora insufficienti. Nel 2023, solo il 45,8% della popolazione tra 16 e 74 anni possiede competenze digitali almeno di base, con forti disparità per età, sesso, titolo di studio e area geografica. Questo punteggio ci colloca al 22° posto della graduatoria UE, con una distanza di 20 punti percentuali dalla Spagna (66,2 %) e di 14 punti percentuali dalla Francia (59,7 %). Anche le PMI hanno ampi margini di miglioramento: solo il 30% delle imprese ha un livello medio o alto di digitalizzazione mentre solo l’8% ha adottato l’intelligenza artificiale. Se non riusciremo a colmare questi divari, la trasformazione digitale rischia di lasciare indietro persone, imprese e intere regioni. Ma la questione non è certamente solo italiana: Mario Draghi qualche giorno fa, inaugurando l’anno accademico al Politecnico di Milano, ha sottolineato che “se l’Europa non copre il divario che la separa da altri Paesi e aree geografiche nell’adozione delle tecnologie legate allo sviluppo dell’Intelligenza artificiale rischia un futuro di stagnazione”. Fortunatamente abbiamo ancora grandi opportunità, grazie al PNRR e alle risorse disponibili per sostenere la digitalizzazione e lo sviluppo tecnologico. La nostra opinione è che sia utile valutare tutte le opzioni per massimizzare l’efficacia delle politiche di formazione sulle competenze digitali e di IA. Esempi possono essere la creazione di una Fondazione in partnership pubblico-privata, l’estensione dei percorsi di alfabetizzazione a cittadini e imprese (aprendo alla possibilità di finanziamenti per la formazione aziendale) e finanziamenti per incentivare percorsi di formazione specifici all’IA per i dipendenti delle aziende, in un’ottica di upskilling e reskilling. L’industria potrebbe inoltre essere coinvolta con le sue Academy, per sostenere l’ampliamento dei curricula scolastici e l’offerta di competenze specialistiche.

Ph. Cristina Gavello

Lei ha più volte parlato della necessità di uno “Youth Deal”: cosa dovrebbe prevedere concretamente un patto per le nuove generazioni e quali interventi ritiene prioritari per sostenere non solo i giovani, ma anche le giovani imprese?

Lo Youth Deal, il patto fra generazioni, nasce all’interno di un progetto più ampio, quello della Filiera Futuro, la nostra proposta di politiche pubbliche e private per rimettere davvero al centro i giovani attraverso azioni focalizzate su natalità, istruzione, innovazione e giovani imprese. Sono tre gli interventi che riteniamo più concreti per rendere davvero possibile fare impresa da giovani e vivere meglio in Italia. Primo, ridurre in modo netto la pressione fiscale, oggi al 42,5%, così da liberare risorse per investire, assumere e crescere, e rendere meno rischioso scegliere di restare e costruire qui il proprio progetto di vita e di lavoro. L’attuale livello di tassazione è un freno allo sviluppo. Le imprese, in Italia, arrivano a pagare in proporzione più di molti colossi globali e continuano a versare imposte anacronistiche come l’IRAP, anche quando sono in perdita. È insostenibile per un Paese che cresce dello “zero virgola”. Serve agire subito. Secondo: agevolare l’accesso al credito. Abbiamo poi proposto di creare una sezione speciale del Fondo di garanzia per le PMI dedicata ai giovani, con accesso gratuito e coperture più elevate. Il Fondo va potenziato e reso stabile, perché senza credito non nasce innovazione. E l’innovazione è fondamentale per costruire imprese competitive e resilienti. Infine un tassello fondamentale: il rafforzamento della previdenza complementare con maggiore deducibilità e più flessibilità. Se vogliamo dare ai giovani un futuro, dobbiamo anche permettere loro di costruire una pensione adeguata. La previdenza integrativa aumenta la sicurezza di lungo periodo e riduce l’incertezza che oggi pesa sulle scelte dei giovani. È una misura di equità generazionale.

Quale ruolo possono avere strumenti come il Fondo di Garanzia per i giovani e altre misure a supporto degli investimenti nel facilitare la nascita e la crescita delle imprese giovanili in Italia?

Dobbiamo agevolare in ogni modo nascita, crescita e internazionalizzazione delle nuove imprese. Rendere più semplice trasformare un’idea e un piano industriale in investimenti reali, anche per chi è giovane, appunto, e quindi senza una solida storia bancaria. Le imprese giovani, soprattutto nelle fasi iniziali, spesso non hanno ancora piena solidità e possono disporre di risorse e garanzie più limitate. L’accesso ai finanziamenti, dunque, è un ostacolo enorme per l’imprenditoria giovane, soprattutto nei settori ad alto rischio di fallimento e ad alto tasso di innovazione. Questi stessi settori sono però quelli a più alta redditività e quelli che, come nel caso delle startup tecnologiche crescono maggiormente. Secondo la Commissione Europea, le sole startup tecnologiche hanno creato 3 milioni di posti di lavoro nell’ultimo decennio. Mettergli a disposizione grandi capitali quindi, non solo per iniziare ma anche per scalare, è una questione di futuro, di capacità di immaginare e costruire nuovi modelli produttivi italiani e europei. Oltre al Fondo di Garanzia, ci stiamo battendo per altre misure importanti come il 28° Regime Europeo: un quadro normativo unico e digitale che permetta di aprire e operare una startup o una PMI in tutta l’UE senza dover replicare procedure in ogni Paese. Oggi in Italia servono 20 giorni per aprire una SRL innovativa; nel Regno Unito 48 ore online. Competitività significa anche questo. Il 28° Regime è un’opportunità storica per rendere più semplice fare impresa in Europa. Possiamo contribuire a questo obiettivo con un regime opzionale unico per startup, scale-up e PMI, attraverso un modello unico, scalabile e europeo che può davvero contribuire a cambiare il clima imprenditoriale del Continente.

Molte imprese italiane faticano a trovare competenze qualificate: quali strategie devono adottare le aziende per attrarre e trattenere i giovani talenti e renderli parte integrante dei propri progetti di sviluppo?

Proprio quest’anno abbiamo realizzato una ricerca sui Giovani Imprenditori di Confindustria, per capire obiettivi e identità del Movimento e, soprattutto, cosa frena la crescita delle imprese in termini di dipendenti e margine operativo lordo. Il dato più netto è questo: per il 57,9% dei Giovani Imprenditori l’ostacolo principale è la difficoltà nel trovare manodopera specializzata e collaboratori altamente qualificati. Da qui abbiamo approfondito anche il tema dell’attrazione e della retention dei talenti. In una scala da 1 a 10, i fattori messi ai primi posti sono: prospettive di crescita di carriera, clima aziendale, welfare, salario più alto dei competitor e lavoro agile. È una fotografia chiara: quando le aziende riescono ad attrarre giovani, la sfida successiva è trattenerli. E su questo le imprese del nostro Sistema stanno mostrando attenzione e coerenza. Il 55,3% offre pacchetti di welfare e il 32,3% utilizza il lavoro agile: due leve fondamentali per attrarre e motivare i giovani. Inoltre, l’84,1% delle aziende che non trova competenze sul mercato ha già attivato contromisure interne, con formazione diretta, collaborazioni esterne e partnership con ITS, scuole e università. In altre parole, le imprese non sono più solo utilizzatrici di competenze: diventano produttori di competenze. I segnali, quindi, sono incoraggianti. Ma ci sono ancora margini su cui si può — e si deve — lavorare, soprattutto su tre parole chiave: trasparenza, crescita e senso. I giovani chiedono percorsi chiari, salari competitivi, progressione rapida e significato in ciò che fanno. Per questo diventa essenziale offrire opportunità concrete di responsabilità, imprenditorialità interna e coinvolgimento nei processi decisionali. Non è semplice, ma è necessario: investire sui giovani non significa solo guadagnare competitività, significa costruire il futuro dell’impresa e del Paese.

Il Sistema Paese gioca un ruolo cruciale: quali sono, secondo lei, le cause principali che spingono molti giovani a costruire il proprio futuro all’estero e quali politiche servirebbero per invertire questa tendenza e riportare valore in Italia?

Le cause che spingono molti giovani a costruire il proprio futuro all’estero possono essere riassunte in due macro: da un lato opportunità più competitive fuori dall’Italia, dall’altro la difficoltà del nostro Paese di valorizzare davvero competenze, merito e prospettive di crescita. Il Rapporto Italiani nel Mondo 2025 ci dice che negli ultimi 20 anni sono emigrate 817mila persone, principalmente da Lombardia, Nordest e Mezzogiorno. E i più mobili sono proprio i giovani tra 20 e 34 anni. La scarsità di giovani disponibili sul mercato interno, dovuta anche al fattore strutturale del declino demografico, genera una vera emergenza per le aziende italiane. Si è creato un paradosso: da una parte, imprese che non trovano competenze; dall’altra, giovani che non trovano opportunità di qualità, in grado di dare sicurezza economica e progettuale. E questo può accadere per diversi motivi, molto spesso per le competenze acquisite o non acquisite rispetto alle richieste del mercato del lavoro. Una combinazione di fattori crea tensioni nel mercato del lavoro e aumenta il rischio di giovani NEET che, non trovando sbocchi, smettono di studiare o di cercare un impiego. Per invertire la tendenza, servono politiche che lavorino su tre assi. Primo: creare opportunità di qualità e percorsi chiari, perché i giovani cercano crescita, formazione continua, equilibrio vita-lavoro e senso, non solo un contratto stabile. Secondo: ridurre il mismatch, rafforzando filiere formative che avvicinino davvero scuola, ITS, università e imprese, e rendendo più veloce la transizione dalle competenze alla domanda di lavoro. Terzo: riequilibrare i territori, perché senza una strategia per Mezzogiorno e aree interne continuiamo a perdere capitale umano e futuro. Come Giovani Imprenditori, abbiamo il dovere — e anche l’interesse strategico — di impegnarci al massimo per riportare valore in Italia e rendere conveniente professionalmente e personalmente restare o tornare. Perché un Paese che non riesce a trattenere i suoi giovani non perde solo risorse: perde prospettiva.

A cura di Francesca Zucchi