130 ANNI DI TESSITURA SERICA TABORELLI

130 anni di storia, quattro generazioni e una visione chiara: fare eccellenza tessile a Como, rispettando ambiente e valori. Dal laboratorio di Bizzozero, in provincia di Varese, a un gruppo industriale internazionale, la Tessitura Serica Taborelli è una testimonianza di passione, creatività e capacità di innovare restando fedele alla tradizione. Fondata nel 1895 da Ambrogio Taborelli, l’azienda ha attraversato quattro generazioni mantenendo viva la tradizione tessile comasca. Oggi, alla guida dell’azienda c’è Andrea Taborelli, Presidente e Amministratore Delegato insieme al cugino Filippo Taborelli, che racconta con schiettezza e ironia le sfide di un mercato in trasformazione, l’impegno pionieristico verso la sostenibilità e la strategia per competere nel mondo del lusso, dove qualità, autenticità e tracciabilità non sono più optional. Dall’investimento in nuovi macchinari alla valorizzazione della creatività locale, passando per la formazione dei giovani e la collaborazione tra aziende, anche concorrenti, Taborelli offre una visione chiara di come si costruisce e si mantiene un’impresa familiare solida e innovativa.

Andrea Taborelli

Andrea, quest’anno sono 130 anni di attività. Quali sono state le tappe principali della vostra storia?

La nostra storia inizia nel 1895, quando il mio bisnonno, Ambrogio Taborelli, avvia una tessitura a Bizzozero, in provincia di Varese – anche se all’epoca nemmeno esisteva -, in quello che oggi è il sito della B-Ticino. La produzione iniziale era dedicata ai tessuti in seta per ombrelli, ma negli anni abbiamo ampliato e diversificato molto. Abbiamo cominciato a realizzare fodere con varie tipologie di filati, sia naturali che artificiali o sintetici. Durante la Prima guerra mondiale producevamo persino la seta per i paracadute — molto chic (ride). La seta, infatti, è l’unica fibra continua naturale al mondo, con una resistenza al peso superiore all’acciaio. Il nylon, allora, era un brevetto americano della DuPont e, trovandosi gli Stati Uniti dalla parte avversa, non potevamo acquistarlo e per questo motivo i nostri paracadute erano tutti di seta. Successivamente ci siamo dedicati anche alle fodere per pellicce, che allora si vendevano moltissimo, e alle fodere per giacche. Nel 1896, un anno dopo la fondazione dell’azienda, nasce mio nonno, Arturo Taborelli che si è sposato tardi, a 52 anni, con mia nonna che aveva 14 anni meno di lui, e dalla quale ha avuto tre figli: mio padre, che poi ha proseguito l’attività; mio zio Angelo, diventato primario di neurochirurgia all’Ospedale Sant’Anna; e l’altro zio, Mario Alberto, impegnato in politica, che in azienda si occupava principalmente di amministrazione. Purtroppo, mio nonno è mancato quando mio padre non aveva ancora 18 anni, e così lui è entrato subito in azienda, agli inizi degli anni Settanta. Ah, dimenticavo, c’è anche un capitolo americano nella nostra storia: mio nonno è partito per gli Stati Uniti per rimanere lì sette anni. Tra l’altro a Staten Island si trovano ancora testimonianze degli immigrati dell’epoca, tra cui quella di mio nonno. Lì lavorava nell’edilizia da una zia, Impresa “Rossi”, molto conosciuta nel Connecticut. Rientrato in Italia, fondò una nuova tessitura a Faloppio, nel Comasco, portata avanti con pochi telai e pochi dipendenti, mentre la sede originaria di Bizzozero chiuse definitivamente. Quindi, tornando a dove mi ero interrotto, quando mio nonno è scomparso, l’azienda è passata a mio padre. A fine anni Settanta avevamo una ventina di telai e una ventina di dipendenti. Mio padre ha dato una nuova direzione alla produzione, puntando sui tessuti per abbigliamento femminile, che rappresentano ancora oggi il nostro core business, circa il 65% del totale. Nel tempo ha introdotto anche la produzione di tessuti per cravatteria, oltre a tessuti per accessori e per arredamento. Questa parte vale circa il 10% della produzione. Il resto è composto da accessori, fodere, greggi e alcune lavorazioni conto terzi. Queste, in sintesi, sono le tappe principali dei nostri 130 anni di attività: una storia familiare fatta di passaggi generazionali, trasformazioni tecnologiche e capacità di adattarsi ai tempi, mantenendo però sempre viva la nostra tradizione tessile.

Dal laboratorio di Bizzozero al gruppo internazionale, da tessitura serica locale a moderno gruppo industriale: cosa non è mai cambiato nel vostro modo di fare impresa?

Nonostante la crescita, siamo rimasti un’azienda familiare. Anche se oggi abbiamo più di 200 dipendenti, io li conosco tutti per nome, uno per uno. Non abbiamo mai introdotto manager esterni alla struttura: l’azienda è sempre stata gestita direttamente da noi. Il mio bisnonno era sicuramente diverso da me, e l’azienda di allora non è sicuramente quella di oggi, però lo spirito è rimasto lo stesso. Siamo ancora artigiani del tessile, pur essendo diventati molto più grandi: tra il 2005 e il 2015 eravamo oltre 400 persone in totale, con più di 450 telai, più un centinaio di telai che lavoravano per noi in conto terzi. Oggi abbiamo circa 350 telai, ma l’impostazione familiare e artigianale del nostro lavoro non è mai cambiata.

Quali sono gli ingredienti per la longevità di un’impresa?

Il rispetto dei valori in cui si crede: solo così facendo sarai sempre creduto.

Andrea e Filippo Taborelli

Nel 2019, insieme a Filippo Taborelli, diventi CEO dell’azienda. Entrare in azienda come nuova generazione: qual è stata la sfida più grande?

La sfida più grande è stata affrontare un mercato che, da quando sono entrato in azienda 25 anni fa, è sempre stato in decrescita. Già all’inizio ho trovato una situazione complessa: poco dopo il mio ingresso è scoppiato il caso Lehman Brothers, e più recentemente abbiamo affrontato il Covid, che è stato un evento epocale per tutti. Sono stati anni di crescita fino al 2007-2008; nel 2014, poi, siamo tornati ai volumi del 2007, ma dal 2014 in avanti il mercato è tornato a scendere, e riuscire a ridimensionarsi non è stato semplice. Nonostante ciò, non abbiamo mai licenziato nessuno, grazie anche alla solidità costruita da mio padre, che ci ha permesso di superare periodi molto difficili. Ma è stata dura: è sempre stata dura da quando sono entrato.

Sono sicura però che qualche soddisfazione l’hai anche avuta!

Sì, ci sono state anche soddisfazioni… vero?! (scherza, ndr). Fammi pensare. La prima è senz’altro l’aver costruito ottimi rapporti con la maggior parte dei miei collaboratori: anche nei periodi più difficili siamo sempre riusciti a lavorare bene insieme, e per me questo vale tantissimo. Un’altra soddisfazione, molto recente, è l’apertura del nostro temporary shop in centro a Como, in Via Natta. Lo abbiamo inaugurato a novembre: vendiamo prodotti innovativi per l’Europa come i piumoni con imbottitura in seta. Io lo uso, ed è fantastico. È naturale, anallergico, antiacaro, antibatterico, il miglior termoregolatore al mondo. Il temporary shop sta avendo un ottimo riscontro e, lo ammetto, questa per me è davvero una bella soddisfazione. Come avete affrontato il delicato tema del passaggio generazionale e quali sono state le sfide che avete riscontrato? Ti dico solo che sono entrato in azienda circa venticinque anni fa e mio papà è ancora in azienda, quindi il passaggio generazionale è stato piuttosto automatico e semplice. Lui continua a esserci, anche se senza ruoli operativi, e questo ci ha aiutati molto nella transizione. Anche mio zio — quello che ha lavorato in politica — ci ha agevolati lasciandoci le sue quote dell’azienda. In questo modo il passaggio è avvenuto in modo naturale, senza particolari conflitti o complicazioni.

Di cosa ti occupi ora in azienda?

Dal 2019 sono Amministratore Delegato e Presidente, insieme a mio cugino Filippo, che è l’altro AD. Fin dagli inizi ho voluto portare nella nostra azienda un forte impegno verso la sostenibilità. Siamo stati tra i pionieri in Italia: già nei primi anni 2000 abbiamo iniziato a usare cotone biologico americano, colorato con tinture naturali nella tintoria di Brenna, e a impiegare filati riciclati. Nel 2008 abbiamo ottenuto, attraverso ICEA Certifica, la certificazione secondo lo standard Global Organic Textile Standard (GOTS), a garanzia che le fibre naturali provengano da agricoltura biologica e che l’intera filiera rispetti criteri ambientali e sociali. A ciò abbiamo aggiunto un impegno strutturale: pannelli fotovoltaici, sistemi di recupero del calore, un’organizzazione attenta all’etica e all’ambiente, e un sistema di gestione certificato secondo gli standard internazionali ISO 9001 (qualità), ISO 14001 (gestione ambientale) e ISO 45001 (sicurezza sul lavoro). In questo modo abbiamo offerto al mercato ciò che oggi viene richiesto dalla domanda globale di tessuti sostenibili e certificati — ma lo facevamo già molto prima che diventasse uno standard. Allo stesso tempo, l’azienda ha conosciuto una crescita significativa: siamo partiti con 20 telai e 20 dipendenti; nel 2007 eravamo circa 300 dipendenti in Italia e 120 in Romania. Oggi abbiamo cinque siti produttivi in Italia, una sede in Romania e un’unità a Prato — uno dei distretti tessili storici del Paese. Per offrire maggiore controllo e trasparenza lungo tutta la filiera, abbiamo acquisito partecipazioni strategiche in diverse realtà tessili: la Tintoria Ambrogio Pessina, la ILTEP, la Finisscomo, la Marco di Pietro, specializzata in design per tessuti, e la NEON 1872, un converter. Questo ci permette di seguire internamente tutte le fasi fondamentali, garantendo qualità, tracciabilità e coerenza con i nostri valori.

Quando la sostenibilità smette di essere un optional e diventa una vera strategia aziendale?

Noi abbiamo iniziato molto prima che il mercato ce lo chiedesse, semplicemente perché ci credevamo. Abbiamo iniziato dalle cose più semplici, dalle basi. Io, personalmente, mangio biologico da quando avevo 19 anni, e 31 anni fa al supermercato non esisteva praticamente nulla di biologico. Ho sempre cercato di portare questa mentalità e la mia filosofia anche in Tessitura Taborelli e nel modo in cui produciamo i tessuti. Per noi la sostenibilità non è mai stata un obbligo: è sempre stata una scelta, una strategia di lungo termine che oggi ci dà un vantaggio concreto sul mercato.

Come sta andando oggi il settore tessile?

Io sono un eterno ottimista, quindi ti dico che si intravedono i primi timidi segnali di ripresa. Bisogna però guardare i numeri: 30-40 anni fa l’80% del tessile-abbigliamento europeo era prodotto in Europa e solo il 20% fuori; oggi la situazione si è completamente invertita: l’85% viene prodotto all’estero e solo il 15% in Europa. L’Italia, comunque, rappresenta il 37% dell’intero manifatturiero tessile europeo, e ci sono tre distretti principali: Prato, Como e Biella, in ordine di occupati. Se 30-40 anni fa c’erano circa un milione di addetti nel settore, oggi siamo intorno ai 360.000. Nonostante questo, il distretto tessile comasco è riuscito a mantenere tutta la filiera in Italia, dal filo al capo finito: filatura, tessitura, nobilitazione e confezione. Il problema è la concorrenza sleale: molti Paesi del Far East e la Turchia, per esempio, che è nell’Unione doganale ma non nell’Unione europea, non seguono le nostre regole e ci fanno concorrenza diretta su costi e normative. I primi tre Paesi da cui importiamo sono Cina, Bangladesh e Turchia. In questi Paesi, la responsabilità sociale, il rispetto dei lavoratori e dell’ambiente non sono certo ai livelli europei. Il regolamento REACH, che regola l’uso dei prodotti chimici, in Europa ha eliminato circa 132.000 sostanze su 140.000, sostanze che all’estero continuano a essere usate. Quando i prodotti tessili arrivano in Europa, il controllo doganale è praticamente impossibile: ogni anno arrivano circa 28 miliardi di pezzi di tessile-abbigliamento e ne viene controllato solo lo 0,001%. Questo rende la concorrenza ancora più complicata per chi produce rispettando le regole europee.

E quindi, cosa bisogna fare per invertire la tendenza e rafforzare la produzione europea?

La primissima cosa da fare è dare al consumatore europeo la possibilità di fare scelte davvero consapevoli. Oggi, quando vedi “Made in Italy” su un capo, quel marchio indica soltanto dove è stato fatto l’ultimo passaggio sostanziale, cioè la confezione. Noi vogliamo andare oltre: il primo passo è introdurre un’etichettatura trasparente che mostri anche gli altri tre passaggi fondamentali della filiera. Ciò significa dire chiaramente da dove arriva la stoffa, dove è stata filata, tessuta e nobilitata — cioè tinta o stampata — perché questo è l’aspetto più importante dal punto di vista ecologico e tossicologico. Per esempio, con il regolamento REACH, di cui ho parlato in precedenza, in Europa sono stati eliminati gran parte dei prodotti chimici più pericolosi. Ma se il capo arriva da fuori Europa, non ho alcuna certezza che quelle sostanze siano state rispettate o eliminate. Se invece il prodotto è fatto in Europa, posso stare tranquillo: quei prodotti chimici non possono essere stati utilizzati.

Quali sono le prospettive per il 2026?

La prospettiva dovrebbe cambiare almeno su un punto fondamentale: la normativa sul Digital Product Passport, che dovrebbe essere approvata a gennaio, includerà l’indicazione dei passaggi della filiera per il consumatore. Se questo successo si realizzasse, potremmo sperare in un’inversione di tendenza. Questo creerebbe un circolo virtuoso: il consumatore avrebbe informazioni chiare sulla provenienza dei tessuti e potrebbe scegliere prodotti Made in Italy fatti con tessuti italiani, aumentando la domanda interna. Allo stesso tempo, diminuirebbe un po’ la quota di mercato dei Paesi che non rispettano norme ambientali e sociali; questo sarebbe forse l’unico stimolo reale per far cambiare anche a loro i propri standard produttivi. In un mondo ideale, il consumatore sceglie consapevolmente, e quindi chi produce bene viene premiato e tutti — noi e loro — miglioriamo costantemente. Sarebbe fantastico, no? Certamente non semplice, ma avere trasparenza sulla provenienza dei tessuti potrebbe davvero aiutare a recuperare quote di mercato.

Ambrogio Taborelli

Sei ottimista?

Sì, certo, sempre! Io sono di natura ottimista. In tema di risorse umane accusate anche voi difficoltà nel reperimento della manodopera? Che strategie adottate per attrarre giovani nel tessile comasco? Sì, certo. È molto difficile, soprattutto in questo periodo in cui i media continuano a dire che il settore tessile-abbigliamento è in forte diminuzione. Così anche i genitori tendono a indirizzare i figli verso altri percorsi. Io ho cercato di fare la mia parte anche tramite Confindustria Como, parlando nelle scuole per far conoscere la realtà del tessile. Sono stato, ad esempio, all’Enfapi, al corso di meccatronica, per mostrare le possibilità del meccanotessile. Un mio collaboratore è proprio un ragazzo che inizialmente non conosceva il settore, ma dopo averlo fatto avvicinare alla nostra realtà, ha deciso di lavorare con noi. Sempre con Confindustria Como abbiamo attivato corsi ITS e IFTS, per formare giovani e non solo. Io stesso sono andato in alcune scuole per presentare il mondo tessile. Nonostante tutto, resta comunque una sfida: spesso dobbiamo formare internamente le persone, con l’aiuto di enti come Enfapi o strutture legate al mondo Confindustriale.

Sei sempre stato molto attivo in associazione.

Sì, ho avuto la possibilità di ricoprire ruoli importanti: sono stato quattro anni Presidente del Gruppo Filiera Tessile, quattro anni Vicepresidente e poi quattro anni Presidente di Confindustria Moda. In questi anni ho portato avanti le mie battaglie, in particolare quella della tracciabilità. Ma mi sono occupato anche di un altro aspetto a cui tengo molto: la formazione. Ad esempio, con l’iniziativa comON – Creativity Sharing abbiamo cercato di portare a Como i migliori talenti delle scuole di design europee – alcuni dei quali sono poi rimasti qui – e di coinvolgere le scuole superiori comasche, e non solo, legate al tessile, per far conoscere loro la nostra realtà. Credo che sia un modo importante per costruire futuro e opportunità per il settore.

Quindi credi nel fare sistema.

Certamente. Confrontarsi con altri imprenditori, creare sinergie tra le aziende: tutto questo ha un grande senso. Fare sistema significa vedere le relazioni come opportunità di collaborazione, per crescere insieme e rafforzare il nostro settore. Facciamo parte anche della Rete del Filo d’Oro, un network informale di imprese che abbiamo costituito più di dieci anni fa. È una rete di collaborazione anche tra aziende concorrenti: ne fanno parte, per esempio, Clerici Tessuto & C. e altre realtà del territorio. Fare rete a Como, soprattutto nel tessile, non è semplice, ma noi l’abbiamo fatto già dieci anni fa, con l’obiettivo di collaborare, migliorare insieme e garantire ai clienti che qui possono trovare il meglio del tessile mondiale. Per noi significa continuare a offrire qualità e innovazione, e allo stesso tempo rafforzare il distretto come punto di riferimento globale.

In uno scenario globale in cui il mondo del lusso sta vivendo una trasformazione profonda, con volumi produttivi ridotti e una forte richiesta di autenticità, sostenibilità e relazioni solide, come siete organizzai in Tessitura Taborelli e quali strategie adottate per competere in un mercato in contrazione e molto esigente?

In Tessitura Taborelli investiamo costantemente in ricerca e sviluppo e nell’ammodernamento del nostro parco macchine. L’obiettivo è continuare a proporre articoli innovativi, realizzati con i filati migliori e nel massimo rispetto della sostenibilità. Vogliamo offrire qualcosa in più rispetto ai produttori più standardizzati. Per esempio, di recente abbiamo acquistato 20 telai nuovi, che ci permettono di combinare tecnologia avanzata e creatività, garantendo qualità e unicità dei nostri tessuti.

Cosa c’è nel futuro di Tessitura Serica Taborelli?

Continueremo a puntare sulla creatività. Abbiamo la fortuna di vivere liberi, in un Paese bellissimo e in una città come Como, che è semplicemente meravigliosa. E vogliamo sfruttare questa libertà e questo patrimonio per creare cose uniche, cose che chi non ha le nostre possibilità semplicemente non può fare. La manodopera sarà sempre fondamentale? Certo, assolutamente. L’AI può aiutare molto, ad esempio a capire quali gusti o tendenze funzionano di più, ma ci vorrà sempre tanta manodopera. Il lavoro manuale, l’esperienza e la cura restano insostituibili.

Quale consiglio daresti ai giovani?

Di non scendere a compromessi sui propri valori. Continuare a credere in principi solidi alla lunga paga. Noi lo abbiamo visto, soprattutto per la sostenibilità: averci creduto per tempo e fatto della sostenibilità una nostra filosofia oggi ci avvantaggia, proprio nel momento in cui tutti chiedono certificazioni.

A cura di Caterina Malacrida