INTERVISTA A DOMINIQUE MEYER, PRESIDENTE DEL TEATRO SOCIALE DI COMO ASLICO

Ph – Alessia Santambrogio

C’è un filo sottile che lega i più importanti palcoscenici europei a una città di lago indubbiamente più piccola delle grandi metropoli continentali ma dalla notorietà internazionale e caratterizzata da una spiccata vitalità culturale. Da Vienna a Milano, passando per Parigi e arrivando proprio a Como, questo filo è intessuto da Dominique Meyer, una delle figure più eminenti della cultura europea contemporanea. Economista di formazione, nel corso della sua carriera ha intrecciato competenze manageriali, sensibilità artistica e capacità di visione politica. Negli anni Ottanta ha collaborato con il governo francese, sotto la presidenza di François Mitterrand, ricoprendo ruoli di responsabilità nell’ambito delle politiche culturali e consolidando un profilo che lo avrebbe portato a diventare, negli anni successivi, uno dei più autorevoli manager culturali a livello internazionale. Dopo dieci anni alla guida della Wiener Staatsoper e cinque come sovrintendente della Scala di Milano, il 5 maggio 2025, la sua strada ha incrociato, come dicevamo, quella di Como. Da quasi sei mesi, infatti, Dominique Meyer è stato eletto dall’assemblea dei soci di AsLiCo Presidente del Teatro Sociale della nostra città. Qui, Meyer ha trovato, anzi ritrovato – e poi vedremo perché -, una realtà diversa da quelle che hanno caratterizzato la sua esperienza: non le proporzioni monumentali dei grandi templi della lirica, ma un teatro più piccolo e al contempo prestigioso, nato oltre duecento anni fa, nel 1813, incastonato nel centro nevralgico e culturale della vita cittadina e profondamente radicato nel territorio. Il Sociale, infatti, da sempre non è solo un luogo di spettacolo: è un monumento culturale, un laboratorio di formazione, un punto di incontro tra generazioni. È questo il tessuto vivo che ora incontra l’esperienza di una delle figure più influenti della cultura europea, chiamato, come Presidente, a immaginare il futuro di una tradizione che da oltre due secoli appartiene alla città. L’arrivo di Dominique Meyer apre, quindi, una stagione nuova, segnata dall’incontro tra la grande dimensione internazionale e l’intimità di una comunità locale che guarda all’opera, alla prosa e alla musica, non solo come eredità, ma come linguaggio capace di interpretare e raccontare ancora il presente e, magari, leggere il futuro. La sua figura, abituata a confrontarsi con palcoscenici di dimensione globale, ma comunque legata a Como da una frequentazione quasi trentennale, introduce una prospettiva inedita: quella di un dialogo tra l’esperienza dei grandi teatri internazionali e la specificità di un contesto più raccolto, ma fortemente identitario. La sfida sarà coniugare la tradizione secolare e il radicamento cittadino del Teatro Sociale con nuove visioni capaci di parlare ai pubblici di oggi e di domani, rafforzando al contempo la proiezione europea di Como nel campo della musica e dello spettacolo.

Presidente Meyer, il suo, in qualche modo, è un ritorno a Como. Quando nasce il legame con la nostra città?

Questo legame risale ai primi anni duemila, quando il Concorso Internazionale AsLiCo fu trasferito da Milano a Como. Ho avuto la fortuna di essere invitato spesso, anzi – scandisce bene sorridendo, ndr – a onor del vero, ogni anno, a far parte della giuria del concorso e se lo amavo già quando era a Milano, a Como ha assunto un’altra dimensione. Perché in una grande città come Milano, dopo le prove, i componenti della giuria partono e si disperdono nei mille rivoli della metropoli. Mentre a Como c’è maggiore concentrazione della giuria che per me è un aspetto centrale. Perché trovo che uno dei pregi dei concorsi, nei quali si trascorrono sette o otto ore ad ascoltare e si ha poco tempo per parlare, sia quello di poter legare con gli altri componenti della giuria. E qui si può. L’altro punto essenziale è che, a Como, il concorso si tiene in un vero teatro. A Milano le prove avvenivano presso l’Istituto Ciechi o nel ridotto della Scala che è carino ma pur sempre limitato. Il fatto di poter venire qui a Como a fare le prove in un luogo con una buona acustica, che rende giustizia al cantante, ha rappresentato un plus importante sia per i concorrenti che per la giuria. Davvero, mi è sempre piaciuto farlo qui. Abbiamo trascorso periodi belli ma anche altri più difficili come quello del Covid durante il quale siamo riusciti comunque a mantenere il concorso (e batte con soddisfazione il pugno sul tavolo, ndr). E sono contento anche perché si è creata una famiglia: conosco da tanto Barbara Minghetti (da sempre anima del Teatro Sociale e attuale Vicepresidente di AsLiCo, ndr) e Giovanni Vegeto (Direttore Generale, ndr) e siamo molto legati. Ho sempre avuto piacere nel venire qui perché c’è una forte dimensione umana. Un periodo davvero interessante perché ho visto in parallelo lo sviluppo del Concorso AsLiCo, del teatro e della città.

Ha notato cambiamenti anche nella città?

Sì, la città di oggi ha poco a che vedere con quella di venticinque anni fa. Ho trovato una città migliorata, pulita e ben sviluppata. Si percepisce subito l’attivismo che ferve in essa. è vero, c’è una facciata turistica, cui probabilmente l’Expo di Milano ha dato una spinta, e questo ha influito molto anche sui prezzi: ricordo quando ero studente che venivo tra Natale e Capodanno per vedere gli spettacoli alla Scala e per spendere meno pernottavo a Como. Ora le parti si sono invertite. Ma c’è anche un’altra realtà: quella locale che ha un forte interesse per cultura e sport. Che insieme al turismo rappresentano i tre punti importanti che qualificano la Como di oggi. Poi ho preso le mie abitudini: i ristoranti, per esempio. Io sono un goloso – sorride, ndr – e ormai i ristoratori mi riconoscono e mi propongono i piatti abbinati ai miei vini preferiti.

In una delle sue prime interviste come Sovrintendente della Scala ha dichiarato che “quando arriva un nuovo incarico c’è un tempo per i sogni”. Ha fatto un sogno anche per il Teatro Sociale?

Da sin. Claudio Bocchietti, Giovanni Vegeto, Barbara Minghetti e Dominique Meyer (Ph – Andrea Butti)

Guardi, per il Sociale non ho un sogno: ho molti sogni. Sicuramente dobbiamo trovare le risorse per migliorare quello che facciamo, aspetto che non è legato solo alla qualità delle persone, già ottime, ma anche ai mezzi. Abbiamo bisogno di sostegno: è fondamentale. Il teatro è sempre stato gestito molto bene, ma è evidente che ci sono dei limiti. In Francia si dice che non ci sono dichiarazioni di amore ma solo prove d’amore. Il senso è che le dichiarazioni sono sempre piacevoli, ma quello che aiuta sono le prove. Il secondo sogno è che sia più riconosciuto il lavoro che viene fatto in questo teatro soprattutto nell’ambito della scoperta di nuovi artisti e nel lavoro di avvicinamento dei bambini. Vede, io non sono malinconico quando guardo la storia della lirica, non penso che l’erba sia stata più verde prima. Al contrario sono convinto che ci sia sempre lo stesso potenziale. C’è una qualità artistica crescente. E vedo un miglioramento continuo anche nei concorsi. Per questo non c’è motivo di essere malinconico. Perché vengono sempre fuori artisti nuovi di qualità e di livello. Bisogna essere attivi, non snob. Non pensare solo al passato ma cogliere la qualità del presente, avere occhio e soprattutto orecchio aperto per quello che nasce. Questo è il compito di AsLiCo: far nascere nuovi artisti e far nascere l’amore per questa bellissima arte nel cuore dei bambini.

Qual è il primo obiettivo che si è posto dopo la sua elezione a Presidente di questo Teatro?

Corrisponde al primo dei sogni che le dicevo: trovare più risorse. Io non ho una funzione artistica. Ci sono persone che la svolgono già e lo fanno bene. Io vengo per dare una mano e aprire le porte.

Lei vanta una grandissima esperienza internazionale nei grandi palcoscenici europei. Quanto di quell’esperienza può essere utilizzato a vantaggio del Teatro Sociale?

Ma certo. Sicuramente idee nuove per Como e nuovi artisti. Non si deve cercare di far crescere ma cercare sempre di migliorare. Dobbiamo orientare tutto lo sforzo alla ricerca della qualità. Abbiamo tutto per farlo. Lo sa? Sono molto ottimista.

Quale intende essere il suo rapporto con le istituzioni e le imprese del territorio?

Cercherò di coltivare un rapporto ma possiamo ancora migliorare su questo aspetto. Serve sicuramente del tempo. Ma non sono pigro eh (sorride, ndr), sono partito ieri a mezzanotte da Losanna dove gestisco l’Orchestra da Camera per essere qui questa mattina a incontrare le istituzioni e i rappresentanti delle imprese del territorio.

Da tempo lei è contrario alla consueta diarchia, preferendo un’unica figura al vertice di ogni teatro. Quali vantaggi porta questo cambiamento epocale?

È una ragione molto razionale: io penso che non possa esistere un direttore artistico che non abbia consapevolezza delle conseguenze della decisione artistica. La diarchia, secondo me, è mortale perché dà l’impressione che ci possa essere la figura di un direttore artistico che non sia in grado di avere limiti e serva qualcuno che lo freni. La parte principale del lavoro è quella artistica, ma il direttore artistico deve sapere gestire. Deve saper fare le valutazioni delle conseguenze organizzative, economiche e tecniche. Ho visto tanti casi di litigi tra direttori artistico e amministrativo. Non ho mai visto una nave che vada bene con due capitani. Naturalmente se vuoi fare quel mestiere devi sapere gestire le persone, avere regole di vita e di comportamento, saper prendere decisioni che a volte non piacciono.

Spesso, soprattutto in Italia, in ambito culturale c’è un problema di sostenibilità economica. Qualche anno fa, era celebre la frase attribuita a un noto ministro, che poi smentì di averla pronunciata, “con la cultura non si mangia”. Cosa ne pensa?

C’è una popolazione importante che vive grazie al lavoro in ambito culturale. Il teatro, lo spettacolo, l’arte hanno una dimensione economica. Chi lo nega sbaglia. I teatri hanno un potere economico forte: chi si muove, anche a livello internazionale, per assistere ad eventi spesso ha un potere di spesa elevato. Ci sono tanti studi che fanno emergere l’indotto economico della cultura. Io penso che noi dobbiamo investire nella cultura come cemento della civiltà. Una società senza cultura è come un pollo senza testa che gira senza sapere dove andare e dopo un po’ crolla. C’è una dimensione da non dimenticare, una dimensione ingenua forse: anche un bambino può essere emozionato da una voce, da un’immagine, da un dipinto. Mi lasci citare un ricordo personale: quando mio figlio era piccolo Io portavo a vedere non quattrocento quadri in un giorno ma due. E restava colpito da essi. Se li ricorda ancora oggi che ha 29 anni. È così che si costruisce la personalità di un bambino, non lasciando la cultura nascosta in un angolo. Abbiamo questo dovere di aprire le porte e far entrare la gente. A Milano c’era una cosa che non mi piaceva: c’era un piccolo gruppo che pensava che la Scala fosse di sua proprietà, scoraggiando chiunque si avvicinasse dall’esterno. Vede, io ho passato la mia vita ad aprire porte.

Restando sulle generazioni più giovani: che consiglio si sente di dare loro?

Il consiglio che darei, ma non solo ai giovani, è che quando si va a vedere uno spettacolo si deve andare come a un incontro d’amore. Pronto ad accogliere con le braccia aperte e non pensando a quello che dirai nella pausa, alle critiche che farai, non pensando di saperne più degli altri.

Una propensione, quella dell’accogliere, che potrebbe essere rivoluzionaria in tutte le situazioni, non solo nell’arte.

Ça va sans dire!

Grazie Presidente! L’intervista sarebbe terminata, ma c’è una curiosità che, in virtù delle sue origini alsaziane, è rimasta nell’aria fino a ora. Ovviamente se preferisce non scriviamo nulla. Ma ci piacerebbe sapere cosa ne pensa di quanto sta accadendo in Francia in questi giorni?

Lo scriva senza problemi. Le confesso che sono molto rattristato da quanto sta accadendo nel mio Paese. Purtroppo, la crisi di governo, la politica di austerity e le pesanti proteste di piazza sono il risultato di un decadimento della classe politica e dell’alta funzione pubblica francese che ha una causa ben precisa. Noi avevamo un fiore all’occhiello: l’Ecole Nationale d’Administration che preparava i migliori tecnici della pubblica amministrazione di Francia. Con una scriteriata decisione negli ultimi anni viene impedito a chi si è laureato lì, dopo un periodo al servizio della cosa pubblica, come avveniva prima, di poter terminare la propria carriera in ambito privato. Guadagnando di più, evidentemente, ma anche offrendo, prima, il proprio servizio al Paese. Con questa decisione che chiude le porte, che imbriglia, i migliori non sono più disposti a impegnarsi per lo Stato, vanno direttamente nella consulenza privata, e la figura del civil servant diviene prerogativa dei mediocri. Non è per tutti scrivere una legge, intendo in senso tecnico. Ma se è scritta male le conseguenze sono pesanti e questa volta per tutti. Come stiamo vedendo in questi giorni.

A cura di Stefano Rudilosso