ROBERTA DI FEBO: intervista alla fondatrice e direttrice del Liceo Giuditta Pasta

Ci sono scuole che nascono da un progetto, e scuole che nascono da una promessa. Il Liceo Musicale Coreutico Giuditta Pasta è nato così: per offrire continuità a un gruppo di ragazzi rimasti senza un posto dove studiare. Roberta Di Febo, insegnante di pianoforte, oggi fondatrice e direttrice del liceo, ha raccolto quella sfida con coraggio. Dodici studenti, due classi, e un’idea forte: costruire una scuola in cui l’arte fosse molto più di una materia. Oggi quegli studenti sono quasi cento. Una crescita voluta, ma sempre contenuta. Perché restare piccoli significa poter ascoltare, intervenire, costruire relazioni autentiche. “Progetta il tuo futuro senza smettere di sognare” non è solo il motto del Giuditta Pasta: è una visione concreta. Qui l’arte non è un lusso, né un’attività collaterale. È un linguaggio. Un modo di esprimersi, di conoscersi, di imparare a fidarsi. In questi primi dieci anni, Roberta ha costruito una scuola viva, fatta di scelte coraggiose, fatica quotidiana, qualche sana follia, tante emozioni e con una promessa sempre mantenuta: credere nei ragazzi. E nel potere dell’arte di renderli liberi. L’abbiamo incontrata per farci raccontare questo primo, importante traguardo.

Roberta, partiamo dall’inizio. Che ruolo hanno avuto la musica e l’arte nella sua vita, e come è nata la scuola?

Roberta Di Febo, fondatrice e direttrice del Liceo Giuditta Pasta

La musica ha fatto parte della mia vita da sempre. Sono pianista, laureata in pianoforte principale, e fin da giovane ho coltivato anche una forte passione per la danza. Ma quando ero ragazza conciliare questi interessi era davvero difficile. Frequentavo un liceo scientifico e studiavo al conservatorio, ma vivere entrambe le strade in modo pieno sembrava impossibile. All’epoca ti costringevano a scegliere: o l’una, o l’altra. E quella scelta forzata mi ha lasciato un senso di incompletezza. Col tempo, ho cominciato ad approfondire studi legati alla pedagogia, alla psicologia, al potere dell’arte nello sviluppo personale. Mi sono appassionata sempre di più a un’idea di educazione che mettesse al centro la musica e la danza non solo come espressioni culturali, ma come strumenti formativi a tutto tondo. Perché la musica, soprattutto, ha un potere straordinario. L’ho visto con i miei occhi insegnando per anni pianoforte presso l’Accademia Bossi di Como – una realtà storica, che ho avuto l’onore di dirigere nei suoi ultimi anni di vita. In quegli anni ho compreso fino in fondo quanto la musica potesse agire non solo a livello accademico, ma anche sul piano spirituale, emotivo, quotidiano. Nei bambini e negli adolescenti, in particolare, la musica diventa uno spazio dove esprimersi senza paura, dove riconoscersi, dove rafforzare la propria autostima. È un linguaggio che cura, educa, costruisce. Così, quando si è presentata l’opportunità di fondare un liceo musicale e coreutico, ho sentito che era il momento giusto. Forse è stata una follia, ma era una follia piena di senso. Volevo creare una scuola dove i ragazzi non dovessero scegliere tra cultura e creatività, tra disciplina e vocazione. Un luogo in cui crescere per davvero, in tutte le proprie dimensioni. E così è cominciato tutto. All’inizio, quasi per necessità.

In che senso “quasi per necessità”?

All’inizio non c’era un progetto strutturato. Era una risposta a un’urgenza concreta. Un gruppo di famiglie si era trovato improvvisamente senza una scuola, perché il liceo che frequentavano i loro figli aveva chiuso. Mi avevano chiesto aiuto e io avevo dato loro la mia parola: li avrei accompagnati fino alla maturità. Così ho aperto il liceo pensando semplicemente di portare a termine il loro percorso. Poi, però, l’anno successivo sono arrivate molte richieste di iscrizione da altri ragazzi. A quel punto ho capito che non si trattava solo di chiudere un ciclo, ma di aprirne uno nuovo. Ho deciso di mettermi in gioco sul serio: ho ripreso a studiare, mi sono laureata in psicologia e ho iniziato a costruire una vera e propria filosofia educativa. Sognavo una scuola che non si limitasse a insegnare musica o danza, ma che usasse l’arte come chiave per educare la persona nella sua interezza.

Qual è l’approccio educativo della scuola?

È una scuola particolare. Non direi mai che è migliore di altre, ma è sicuramente unica nel suo genere. È una scuola fondata su un forte rapporto umano tra studenti, docenti, famiglie… e me. Alla base c’è la fiducia, costruita giorno dopo giorno, e una relazione educativa che si nutre di ascolto, rispetto, vicinanza. Tutto si fonda sulla lealtà reciproca e sulla sospensione di giudizio. I ragazzi qui non si sentono mai giudicati come persone. Valutiamo il comportamento, l’impegno, le prove, certo, ma sempre con l’obiettivo di farli crescere, non di etichettarli o bloccarli. E questo clima li aiuta a sentirsi liberi, a lasciar cadere le maschere, a mostrarsi per quello che sono davvero. Nel biennio, lavoriamo molto sulla costruzione del rapporto umano e sull’impostazione del metodo di studio. Nel triennio, invece, tendiamo a lasciare più autonomia, perché devono imparare ad affrontare il mondo esterno da adulti. Ma rimaniamo comunque una scuola che offre una grande protezione emotiva – che non vuol dire “regalare le cose”, ma accompagnare ogni studente finché non riesce a tirare fuori il proprio potenziale, valorizzandolo. Crediamo che ognuno abbia qualcosa di grande da far emergere. E quando si crea l’ambiente giusto, questo accade in modo naturale. La nostra idea è che chi vive il proprio talento artistico come una risorsa – non come un’eccezione o un peso – diventa un adulto più equilibrato, più in ascolto, più attento anche agli altri. L’arte, se integrata in un percorso educativo sano, diventa un moltiplicatore di consapevolezza. E questo è quello che cerchiamo di fare, ogni giorno. Io, da parte mia, cerco di dare tutto: come professionista, ma anche come persona.

Come si coniugano la musica e la danza con le materie scolastiche più tradizionali?

Per noi questa contaminazione è naturale. Mi ricorderò sempre un progetto bellissimo, in cui mettevamo a confronto La donna cannone di De Gregori con L’infinito di Leopardi. I nostri studenti studiano usando il corpo, il suono, il movimento per interiorizzare concetti anche complessi. Quando un ragazzo vive un concetto – lo canta, lo danza, lo respira – quel concetto gli resta per sempre. Magari non ricorderà una data, ma l’essenza sì. Perché la conoscenza è diventata esperienza. E poi c’è un altro aspetto: questo metodo funziona benissimo anche con i ragazzi con difficoltà di apprendimento. Chi ha un DSA, ad esempio, spesso trova nell’arte un linguaggio più diretto, più inclusivo, più efficace. Anche solo vedere il proprio compagno interpretare un tema attraverso la danza può far arrivare un messaggio che una lezione frontale non avrebbe mai trasmesso. Un’educazione musicale pensata non solo come studio fine a sé stesso, ma come strumento educativo vero e proprio, dovrebbe essere obbligatoria fin dalle elementari: aiuta a sviluppare l’ascolto, la creatività, la gestione delle emozioni. Io tengo molto a usare il termine maneggiare la musica, anche se può suonare un po’ ruvido perché dà proprio l’idea del fare, del mettersi in gioco. Maneggiando la musica – anche sbagliando – permette ai bambini e agli adolescenti di esprimere quello che a volte non riescono a dire. Perché spesso non sanno spiegare ciò che provano, e costringerli a farlo a parole serve a poco. Invece, attraverso un linguaggio intuitivo e diretto come quello musicale, possono tirare fuori il loro mondo interiore in modo naturale, e questo da solo risolve già metà del problema.

È soddisfatta dei risultati che ha ottenuto in questi anni?

Sì, devo dire che abbiamo avuto ottimi risultati, e ne sono felice. Gli esami di maturità si sono conclusi da poco, e tra le tante soddisfazioni c’è una nostra studentessa che ha ottenuto 100/100 ed è risultata prima nelle graduatorie dell’Accademia Nazionale di Danza di Roma. È stata ammessa in due discipline, entrambe al primo posto: un traguardo straordinario. In generale, riusciamo quasi sempre a portare ogni ragazzo al suo obiettivo. I casi in cui non ce l’abbiamo fatta sono pochissimi, e quando accade, spesso ci sono dietro fragilità personali molto complesse. Ma anche in quei momenti, so di aver fatto tutto il possibile. L’importante per me è esserci davvero, con responsabilità e sincerità. Non basta “provarci”: bisogna metterci tutto, per davvero. E anche quando qualcosa sfugge, quello che conta è sapere che non si è mai smesso di credere in quel ragazzo. È un equilibrio difficile, anche con sé stessi, ma vale sempre la pena.

All’inizio immagino non sia stato tutto semplice. Ha incontrato qualche difficoltà?

Tantissime. Soprattutto nei primi tempi, quando tutto era da costruire. E non solo a livello organizzativo, ma anche istituzionale. Ricordo perfettamente il giorno in cui sono andata a Milano, all’Ufficio Scolastico, e ho detto con la massima sincerità: “Io la preside non l’ho mai fatta. Se mi aiutate a farla, i risultati li portiamo a casa”. È stato un atto di fiducia, da entrambe le parti. E da lì in poi ho imparato tutto, giorno per giorno. Non è mai stato facile, ma ogni difficoltà affrontata è servita a dare solidità a quello che siamo oggi.

Quando ha sentito davvero che la sua visione stava prendendo forma? Che la scuola stava diventando “la sua”?

Il vero punto di svolta è arrivato dopo la prima maturità. Fino a quel momento ero sotto osservazione da parte di tanti organi istituzionali, e le scelte erano inevitabilmente condizionate. Ma con il primo esame di Stato superato, è come se fossi stata promossa anch’io. È stato allora che ho potuto finalmente cominciare a scegliere. E non intendo semplicemente selezionare i docenti in base ai titoli, ma scegliere le persone. E ho iniziato a mettere in atto la vera filosofia della scuola. Io ho scelto le persone, non il titolo di studio. Quelle capaci di mettersi in gioco, di metterci il cuore, di vivere l’insegnamento come una vera missione. Perché il titolo di studio lo abbiamo tutti, ma ciò che davvero fa la differenza è la passione. È quell’energia invisibile che trasforma una lezione in un momento che i ragazzi ricorderanno. Ho scelto chi era disposto ad ascoltarli, a comprenderli, a vedere oltre la materia.

Lo slogan del Liceo è “Progetta il tuo futuro senza smettere di sognare”. Cosa significa davvero nella quotidianità scolastica?

Significa creare un luogo in cui nessun ragazzo debba scegliere tra la propria vocazione e la propria formazione. Purtroppo, nel mondo della danza e della musica è ancora diffusa l’idea che se hai talento devi dedicarti solo a quello, escludendo tutto il resto. Ma questo è un errore profondo. Un ballerino, una cantante, un musicista, se privati della parte educativa e culturale, crescono monchi, privati di un pezzo fondamentale della propria identità. Noi, invece, crediamo che la vera crescita avvenga nell’incontro tra arte e cultura. Che la scuola debba insegnare non solo a fare, ma a pensare. Per questo i nostri studenti non vengono formati per diventare solo ottimi performer, ma adulti completi. Noi non prepariamo intrattenitori: formiamo portatori di cultura. Che è qualcosa di molto più grande.

Quanto conta la relazione umana in tutto questo?

È tutto. La relazione viene prima di ogni apprendimento. Senza fiducia, un ragazzo non si affida. E senza affidamento non si cresce. Spesso i nostri studenti hanno dentro emozioni che non riescono nemmeno a nominare. Non perché non vogliono parlarne, ma perché non sanno come farlo. La musica, la danza, il teatro diventano così un linguaggio alternativo: attraverso l’arte riescono a raccontarsi, a comunicare quel disequilibrio interiore che a parole non saprebbero spiegare. Ma per farlo, devono sapere che noi ci siamo. Che non li tradiremo, che qui sono al sicuro. Questo è il patto sacro che abbiamo con loro. Non è facile, richiede una coerenza totale da parte dell’adulto, ma è l’unico modo per costruire qualcosa di vero. E quando succede, è la parte più bella del mio lavoro.

Da poco avete lanciato una webserie per celebrare i primi 10 anni del Giuditta Pasta. Che significato ha avuto per voi questo progetto e cosa vi ha spinto a realizzarlo?

L’idea della webserie (è possibile vederla a questo link) è arrivata un po’ a sorpresa. Me l’ha proposta Guia Zapponi (attrice, regista e produttrice comasca, ndr), dopo esserci conosciute a una cena. Poco dopo è venuta a trovarci a scuola, ha respirato l’atmosfera che si vive qui e se n’è innamorata. Quando mi ha parlato del progetto, però, ero perplessa. Non volevo che la nostra realtà diventasse un prodotto commerciale. Avevo paura di perdere l’identità profonda che ci caratterizza. Ho accettato solo a una condizione: che tutto fosse autentico. Nessun copione, nessuna finzione. Anche la storia centrale, quella dei due protagonisti, è reale: sono davvero una coppia. E lo stesso vale per gli amici, per i dialoghi, per ogni momento della vita scolastica che è stato raccontato e questo, secondo me, arriva allo spettatore. E adesso posso dirlo: credo proprio che ci sarà una seconda stagione, mi viene già da ridere solo a pensarci!

Ci saranno novità per l’anno scolastico 2025/26?

Stiamo lavorando a un progetto che riguarda il potenziamento della sezione coreutica, con l’introduzione di corsi professionali altamente selezionati nel pomeriggio. Non posso dire troppo per ora, ma stiamo progettando un percorso che permetterà ai nostri studenti di crescere ulteriormente nel mondo della danza, supportando chi ha un potenziale maggiore a svilupparlo al massimo. Cosa rende questa scuola così speciale per i ragazzi? Il fatto che qui il talento artistico non è vissuto come qualcosa di “strano” o isolante, ma come una risorsa preziosa. Chi è appassionato d’arte spesso si sente diverso, e non sempre capito. Qui invece impara a vedere il proprio talento come una forza, come qualcosa che lo rende più ricco a livello umano, culturale, neurologico, estetico e filosofico. L’arte ti insegna ad ascoltare, ad accogliere l’altro, ad avere equilibrio. E questo è quello che cerchiamo di fare: aiutare i ragazzi a diventare adulti vincenti, non perché perfetti, ma perché consapevoli, rispettosi di sé e degli altri, e capaci di vivere con serenità e forza il proprio talento.

C’è un momento in questi dieci anni che porta nel cuore?

Ce ne sono tantissimi, a dire la verità. Quello più recente è legato alla maturità appena conclusa: una classe mi ha regalato una pianta accompagnata da una lettera piena di gratitudine. Non era mai successo. Un gesto semplice, ma profondissimo, che mi ha davvero commossa. Il secondo è un cerchio che si chiude: una mia ex alunna, oggi laureata, da settembre entrerà nel nostro corpo docenti. Per me è il sogno più grande: averle dato gli strumenti per volare, e vederla tornare, con una nuova missione. Quello è, forse, il senso più alto della scuola.

Un consiglio ai ragazzi che stanno cercando la propria strada?

Ripeto sempre il nostro motto: pensa al tuo futuro senza smettere di sognare. Ma non dimenticare mai che è la cultura che ti dà la forza di pensare. Il talento è importante, ma non basta. Senza studio, senza confronto, senza apertura, rischia di diventare solo estetica. Se vuoi davvero lasciare un segno, devi costruire dentro di te un pensiero tuo, libero, profondo. E quello lo coltivi leggendo, ascoltando, sbagliando, contaminandoti. Ragazzi, non smettete mai di cercare e non smettete mai di sognare.

A cura di Caterina Malacrida