Annelise Pesa, ex avvocato finanziario internazionale, è executive coach, formatrice aziendale e mamma di due splendidi bimbi di madrelingua inglese. Da diversi anni, infatti, ha eletto Londra come sua residenza, dove supporta gli avvocati di grandi studi legali e, in generale, i professionisti, a progredire nella loro carriera, massimizzare l’impatto come leader e raggiungere la massima soddisfazione nella sfera privata e lavorativa. Ha un passato da direttore esecutivo di Morgan Stanley dove ha ricoperto il ruolo di capo legale Italia seguendo operazioni cross border e ha lavorato in grandi studi legali internazionali nell’ambito della finanza strutturata e operazioni straordinarie.
Dopo la laurea magna cum laude presso l’università La Sapienza di Roma, un master in diritto bancario e finanziario presso l’Università di Londra (Queen Mary and Westfield College), un master in business coaching presso Meyler Campbell, Annelise Pesa ha conseguito diplomi in PNL, psicologia positiva, gestione dello stress e si è specializzata in strumenti psicometrici. È membro dell’Association of Coaching e della British Psychological Society.
Tra i suoi clienti si annoverano manager e professionisti di prestigiosissime realtà come JP Morgan, Societe Generale, Deutsche Bank, HSBC, Unicredit, Blackrock, Pinsent Masons, National Autistic Society, Bonelli Erede Pappalardo, Orrick, City Bank, Goldman Sachs, NHS, Google, Avon, Big Mamma Group, Portolano Cavallo, Sport Resolution e molti altri. Recentemente ha fondato Confassociazioni UK, di cui è membro del board e Segretario Generale, una federazione di associazioni professionali che vanta un milione e duecentomila iscritti che si propone lo scopo di facilitare sinergie all’interno della comunità degli imprenditori italiani presenti in Gran Bretagna e di favorire gli scambi con le imprese italiane.
Che cos’è la psicologia positiva e che differenza c’è rispetto alla psicologia clinica?
In parole molto semplici, la psicologia positiva è quella branca della psicologia che studia il benessere, che studia la realizzazione del proprio potenziale e il fiorire come persona, anche da un punto di vista professionale. Quindi, in un certo senso, è quella parte della psicologia che non riguarda la patologia. Se vogliamo guardare la psicologia clinica come quella branca della psicologia che porta l’individuo da una certa patologia a una situazione normale, la psicologia positiva porta l’individuo da una situazione di normalità a una situazione di massima espressione e realizzazione di se stesso. Non è happyology, non è forzata felicità, ma semplicemente una scienza che ha chiaramente studiato sia da un punto di vista pratico che teorico le applicazioni che portano alla realizzazione personale dell’individuo. La psicologia positiva nasce assieme alla psicologia alla fine del 1800 perché la psicologia, quando si è stabilita come scienza, aveva come oggetto la cura delle malattie mentali, ma anche aiutare l’individuo ad esprimersi al massimo delle proprie potenzialità. Successivamente, a seguito della prima e della seconda guerra mondiale, c’è stata un’enfasi sulla patologia e soltanto negli ultimi vent’anni Martin Seligman, che era il presidente dell’associazione degli psicologi americani, ha riportato l’attenzione su questa parte della psicologia che era stata dimenticata.
Ci sono dei punti di contatto con le filosofie zen di derivazione orientale?
In realtà la psicologia positiva può essere collegata alla filosofia greca perché è proprio da Aristotele e Platone che nascono tanti concetti che poi hanno influenzato la psicologia, in modo particolare la psicologia positiva. Per quanto riguarda le filosofie zen, io direi che il punto di contatto è indiretto, nel senso che la filosofia zen buddista guarda al modo in cui viviamo la vita. La psicologia positiva anch’essa guarda al modo in cui viviamo la vita, dà delle indicazioni che però hanno dei riscontri scientifici su cosa funziona per realizzarsi personalmente e professionalmente.
Prima ci dicevi che la psicologia clinica ha avuto un grande boom dopo le guerre perché c’era necessità anche per eventi di carattere post traumatico di interventi di questo tipo. Dopo questa pandemia che abbiamo tutti vissuto, c’è più necessità di una psicologia di tipo positivo o di tipo clinico? Quale di queste può aiutare meglio?
Sicuramente dipende dalla persona. Cioè dove siamo nel continuum tra -50 e 10? L’analisi è sempre personale, se una persona ha degli episodi depressivi, se gli è stata diagnosticata una condizione depressiva o di ansia o una patologia, è necessario chiaramente un intervento della psicologia clinica. Se invece una persona è in una situazione di difficoltà, ma senza necessariamente sfociare nella patologia, allora può intervenire la psicologia positiva. Credo sia doverosa una premessa. Visto che la psicologia positiva riguarda una serie di attitudini, essa in realtà può essere applicata da tutti. E questo comporta che, applicando i principi di psicologia positiva, aumentiamo la nostra resilienza così che la possibilità di avere delle patologie diminuisce. In un certo senso potremmo considerarla ad efficacia preventiva.
Non so se è capitato anche a Londra o, in generale, in Gran Bretagna, ma in Italia all’inizio della pandemia sono comparsi fuori dalle case cartelloni con scritto “Andrà tutto bene”. Possiamo considerare anche questa una forma di psicologia positiva?
In piccolissima parte, ma sarebbe molto riduttivo. Nel senso che ‘andrà tutto bene‘ è un messaggio di speranza, in psicologia positiva c’è un’enfasi marcata sulle emozioni positive, ovvero le emozioni positive come la gratitudine, la speranza, la curiosità, l’umorismo, che necessitano di uno sforzo per essere coltivate affinché aumentino il nostro benessere. Prendiamo in considerazione la gratitudine. Concentrarsi ogni giorno su alcune cose per cui siamo grati aumenta il benessere. Quindi, in un certo senso, quello striscione rappresenta un messaggio di speranza. Tuttavia, preso da solo senza considerare la gravità di una situazione può essere anche un po’ semplicistico. Non si può ridurre la psicologia positiva al pensare positivo. La psicologia positiva è una scienza, fa parte della psicologia.
Secondo te questa pandemia può averci cambiato o ci cambierà? In meglio o in peggio?
È una psicologia individuale, si parla di post traumatic stress e post traumatic growth, quindi stress a seguito del trauma o crescita a seguito del trauma. Questo dipende da noi e dalle circostanze in cui ci troviamo. Chiaramente, come diceva Churchill: “non bisogna mai sprecare una crisi”. La crisi ci mette di fronte a una destrutturazione dell’io, per poi ricostruirci in maniera più produttiva, ma dipende da noi, dal lavoro che facciamo con noi stessi o con un terapeuta o un coach.
Che vantaggi possono derivare dall’intervento di una figura come la tua nell’ambito del management aziendale?
Il mio intervento può essere introdotto in diversi settori. Può essere un coaching individuale, quindi direttamente con i manager, per aiutarli nella loro consapevolezza, e come questa consapevolezza può impattare sull’azione. Il mio intervento è proprio quello, attraverso il coaching e la psicologia positiva aumentare l’impatto di un leader in azienda. Ma può essere anche a livello di team. Mi sono occupata anche di team coaching o facilitazione, come mediare alcune dinamiche nel team, e recentemente mi sto occupando anche di programmi di wellbeing, e quindi di aiutare gli impiegati a focalizzarsi sulla propria salute mentale.
Ci puoi fare un esempio concreto di un tuo cliente, descrivendoci il prima e il dopo?
Un esempio eclatante riguarda il caso di una mia ex collega che lavorava qui a Londra come avvocato di un grosso studio legale. Aveva anche fatto della psicoterapia. Ho iniziato il percorso di coaching che era veramente giù, quasi depressa. Dopo sei sessioni si è spostata in Libano, dove lavora per l’agenzia di cooperazione italiana a progetti di grandi infrastrutture, si è sposata, è felicissima e dice che le ho cambiato la vita.
Secondo te è più importante lavorare sulle proprie debolezze o sui propri punti di forza?
La psicologia positiva direbbe sui propri punti di forza, perché ognuno di noi nasce con degli attributi unici, quindi coltivare la nostra unicità, la nostra brilliance, la nostra autenticità più vera e più splendente. Quindi dobbiamo coltivare le nostre caratteristiche. Chiaramente le nostre debolezze devono essere limate, dobbiamo avere anche la consapevolezza di migliorare. Tante persone si sentono sbagliate, si concentrano su ciò che non va, invece bisogna concentrarci tanto sulla nostra unicità, perché siamo così unici nella nostra espressione.
Quindi potremmo dire che è un modo per allenare la nostra autostima?
Sì, se facciamo delle cose che ci riescono bene, che ci danno energia, è chiaro che il riverbero sarà positivo verso gli altri e, di conseguenza, aumenta anche la nostra autostima. Tra l’altro c’è un concetto in psicologia positiva che prende il nome di growth mindset, mentalità di crescita, che è molto collegato all’autostima e riguarda proprio l’enfasi sullo sforzo, sulla determinazione e sulla costanza nel raggiungere determinati obiettivi ed è strettamente legato a un sano successo.
Spesso sentiamo dire che l’essere umano ha enormi potenzialità e nella maggior parte dei casi vengono sfruttate in misura minima, addirittura si dice attorno al 20%. È vero secondo te?
Non credo che noi utilizziamo solo il 10/20% del nostro cervello. Abbiamo un quoziente intellettivo altissimo rispetto agli altri animali, quindi, secondo me, l’abbiamo utilizzato parecchio il nostro cervello. Quello che manca è un’attenzione alla maturità emotiva. C’è molta enfasi sull’intellettualizzazione, ma oggi abbiamo bisogno anche dell’intelligenza emotiva. Un altro aspetto può essere quello dell’aumento dell’autostima e di conseguenza delle nostre potenzialità tramite la sperimentazione di cose nuove. Avventurarsi un po’ e andare al di là della nostra zona di comfort.
Tu sei coach, ma sei a tua volta seguita da un coach oppure arrivata al tuo livello non è più necessario?
Non si finisce mai di imparare. Siamo un work in progress e assolutamente ci evolviamo, per cui un coach che non ha mai un coach non può essere un vero coach. Magari non bisogna averlo sempre in tutti i momenti della vita, però è come se un personal trainer non avesse mai avuto un personal trainer.
Prima hai accennato al termine wellbeing. Che differenza c’è tra wellness e wellbeing?
Chiaramente il wellness si riferisce principalmente ad una situazione di benessere fisico, quindi esercizio fisico, mangiare bene, riposare bene, mentre il wellbeing si riferisce maggiormente ad una situazione psichica, di gestione delle emozioni, cura del sé a livello psichico. Però, come dicevano i latini, “mens sana in corpore sano”, per cui le due cose si influenzano molto.
Secondo te è importante avere momenti di attività fisica quotidiana, magari anche nella propria agenda, in modo che si rispettino come un impegno?
Assolutamente sì. L’attività fisica è fondamentale non solo da un punto di vista del movimento ma anche da un punto di vista mentale. Riservarci quel momento è un atto di self care anche a livello mentale.
All’ordine del giorno di tante realtà aziendali ci sono due temi di cui anche tu ti occupi, che sono l’inclusion e la diversity. Che ruolo possono avere nell’equilibrio e nelle performance aziendali?
Ci sono degli studi che hanno provato che avere dei team che hanno componenti di diverse fedi religiose, uomini e donne che vengono da diversi background, aumenti la performance. Questo a patto però che l’ambiente sia inclusivo. Non deve essere solo formale altrimenti la performance decresce. È importante che la diversity sia associata all’inclusion, perché sono due cose diverse. Si usa dire che la diversity è che tutti vengono invitati al party, mentre l’inclusion è che tutti vengono invitati a ballare al party.
Come si fa a fare più inclusion in azienda?
Si deve creare un ambiente che in inglese si dice “psychologically safe”, in cui ci si senta liberi di potersi esprimere se si vuole, di portare il proprio sé in azienda senza dover nascondere alcune parti, incluso per esempio un orientamento sessuale se uno vuole, e quindi avere un ambiente che permetta di esprimere tutto ciò che sei anche da un punto di vista personale.
L’ultima domanda, concedila, è un po’ fuori tema, ma vogliamo approfittare della tua presenza a Londra. Con la Brexit ci saranno più vantaggi o più svantaggi per l’economia britannica?
Adesso, visto anche l’effetto della pandemia, la situazione non è particolarmente rosea, sicuramente la Brexit comporta una regolamentazione molto più pesante rispetto a prima e chiaramente ci sono meno scambi. Gli scambi tra il Regno Unito e l’Italia sono diminuiti del 30% a seguito della Brexit. Quindi al momento non sta favorendo particolarmente l’economia britannica o gli scambi, però visto che Londra in particolare è sempre stata una meta importante, diciamo che si potrebbe parlare di decrescita che poi però porterà ad un aumento delle relazioni quando si capirà come gestire la nuova regolamentazione e anche quando le persone si saranno un po’ più abituate a questa situazione. Tra l’altro io sono Segretario Generale di una federazione di associazioni di categoria e di professionisti, che si chiama Confassociazioni, abbiamo aperto una branch qui a Londra proprio per favorire questi scambi e per aiutare gli imprenditori italiani a riprendere una linea di business con il Regno Unito.
A cura di Stefano Rudilosso