IL CHANGE MANAGEMENT IN UN MONDO IN PROFONDA EVOLUZIONE

Mariacristina Vaccarisi lavora da oltre 20 anni nelle Risorse Umane all’interno di contesti aziendali in forte evoluzione, complessi ed eterogenei per business, cultura aziendale e manageriale. Ha maturato una solida esperienza nella Progettazione e Deployment di People Strategy a supporto dei Piani Industriali sfidanti finalizzati a integrare fra loro unità e società con storie aziendali a volte molto lontane fra loro.

Program Management Officer (PMO) su numerosi progetti di Change Management, con focalizzazione su smart working, cultura manageriale e nuove competenze, spesso legati a investimenti digitali su processi, servizi e prodotti. Attualmente opera come consulente in area People&Change Management, proponendo un approccio multistakeholder che la porta a stipulare solide partnership con gli interlocutori, operando sempre nel rispetto del DNA aziendale e della gradualità necessaria a garantire la sostenibilità del cambiamento culturale, organizzativo e aziendale.

Mariacristina Vaccarisi

Mariacristina, iniziamo dalle parole perché  come si diceva in un famoso film di tanti anni fa, “le parole sono importanti”. È innegabile che la pandemia abbia modificato il lessico del lavoro introducendo o, comunque, rendendo di uso comune termini quali smart working, soft skills – intese, in particolare, in questo momento come le abilità trasversali necessarie per reggere imprevisti e cambiamenti repentini -, empatia, resilienza e molte altre. Si tratta solo di un nuovo linguaggio o stiamo assistendo ad una vera trasformazione che andrà ben oltre questa situazione contingente?

Si è vero, le parole sono importanti. È chiaro che il linguaggio, in questo lungo periodo di crisi ed emergenza, ha assunto un ruolo centrale, “vitale”, anche per le aziende e che la funzione di comunicazione interna ed esterna è stata tra le più sollecitate in azienda. Una diversa comunicazione e “nuovi linguaggi” sono stati utilizzati in azienda per informare, raccontare, tranquillizzare “dare un senso”, supportare, motivare le persone, alimentando il senso di comunità e vicinanza. Ma proprio perché le parole sono importanti, ancora più importante è garantire coerenza tra ciò che si dichiara (anche attraverso “nuovi linguaggi”) e ciò che viene realizzato concretamente nelle aziende. Infatti, a volte, potrebbe risultare abbastanza semplice adeguare i linguaggi aziendali ai “nuovi lessici”, ma non altrettanto semplice è mantenere coerenza tra “ciò che si comunica/ciò che arriva alle persone/ciò che infine realmente si attua” e questo non solo nella comunicazione aziendale! Detto questo e per rispondere alla tua domanda: sì, credo che un nuovo linguaggio sia sintomo di un dirompente cambiamento in atto.

Parliamo di smart working. Siamo tutti d’accordo che sia stato fondamentale per arginare il dilagare della pandemia e, allo stesso tempo, proseguire il lavoro, naturalmente per quelle tipologie di funzioni che possono essere svolte in remoto. Da un piccolo sondaggio personale che ho fatto, sentendo tipologie di persone di estrazione completamente diversa ho, però, anche la percezione che questo strumento stia iniziando a mostrare i suoi limiti in termini di freddezza, progressiva sterilizzazione delle relazioni e, di conseguenza, in termini di diminuzione della creatività e coesione sociale. Qual è la tua opinione in merito?

A mio modo di vedere, il tema va oltre lo smart working. Io lo approccerei da un punto di vista diverso. Le aziende, per la sopravvivenza sul loro mercato di riferimento, sono chiamate a ridisegnare i propri orizzonti evolvendo rapidamente (e spesso a 360 gradi): evolve il business in qualsiasi settore anche in quelli più tradizionali, evolvono i processi (spesso, in parte, digitalizzati), si modifica la struttura organizzativa aziendale, si trasformano le competenze tecniche e manageriali: in questo panorama il tema di come organizzare l’azienda include moltissimi aspetti che non si limitano a “se e quanti giorni far fare smart working ai dipendenti”. La domanda da porci forse dovrebbe essere: come riorganizzo LO STARE IN AZIENDA? E quindi come organizzo gli spazi fisici e quelli “digitali”, l’organizzazione, i processi aziendali e le modalità di lavoro? E ancora chiedermi: come misuro le performance dei mei dipendenti? Come gestisco da un punto di vista contrattuale e giuslavoristico le scelte organizzative e gestionali più adatte alla mia realtà aziendale? Come proteggo il mio patrimonio aziendale dai nuovi rischi? E, infine, ma è la più importante: come accompagno e supporto i dipendenti (dai manager ai ruoli più operativi) in questa evoluzione aziendale e di contesto? Con quale formazione? Quali azioni da realizzare per il loro benessere e quindi per il benessere dell’azienda nel suo complesso? In sintesi, se fossi un imprenditore, un membro del Board o un Direttore Risorse Umane, il tema che mi porrei non sarebbe tanto (o solamente) se attivare o non attivare (o mantenere) lo smart working nella mia azienda ma come far evolvere l’azienda e il modo di lavorare delle persone per rimanere sul mercato generando valore socioeconomico per tutti (azienda, persone e territorio). È un tema che inoltre si collega strettamente al tema centrale della sostenibilità.

La sostenibilità in azienda ad oggi racchiude concetti e azioni non più solo legati alla tematica Ambientale, ma anche a quella Sociale e di Governance (obiettivi ESG). Qual è, o quale dovrebbe essere, secondo te, il ruolo di chi si occupa nelle aziende di Risorse Umane, in tema di sostenibilità?

Il tema della sostenibilità ha, oramai da anni, assunto un ruolo strategico nelle aziende di tutte le dimensioni. È chiaro che il ruolo di chi opera nelle Risorse Umane deve necessariamente evolvere: da una funzione che accompagna le politiche di sostenibilità (attraverso attività di formazione, sensibilizzazione, azioni dedicate alla salute e sicurezza dei lavoratori) ad una funzione che disegna e realizza tutti i processi di people management declinando al loro interno a 360 gradi i principi, gli obiettivi e i criteri di sostenibilità. Il fattore critico di successo, a mio parere, sarà la capacità nelle aziende di creare una forte collaborazione e interdipendenza tra chi si occupa di CSR in azienda e chi si occupa di HR.

Recentemente è stata pubblicata la classifica Best Workplaces 2021, da cui emerge che i migliori posti in cui lavorare sono quelli caratterizzati da più innovazione ed equità, una maggiore capacità di ascolto e di coinvolgimento dei collaboratori nelle decisioni. Tu sei esperta di change management. Che suggerimento potresti dare rispetto alle azioni concrete da introdurre in una realtà che desiderasse intervenire, per migliorare, sugli aspetti citati?

Se nella classifica Best Workplaces 2021 l’innovazione, l’equità, l’ascolto e il coinvolgimento sono emerse come “caratteristiche” che condizionano il percepito e il vissuto delle persone e della loro scelta professionale, riprendendo il tema della sostenibilità e per rispondere alla tua domanda, non c’è una ricetta magica e adatta a tutte le realtà aziendali, ma credo che sia necessario partire da questa riflessione: dove ci sono ascolto, equità, coinvolgimento, c’è quindi INCLUSIONE. Dove c’è inclusione si crea il terreno fertile per innovare, creando nel presente “il futuro” e quindi benessere per l’azienda, i dipendenti e il territorio. Per fare questo, consiglio di evitare di muoversi in modo entropico e reattivo con iniziative spot che “seguono le mode del momento”. Consiglio a chi vive in azienda e si occupa di Risorse Umane di disegnare e realizzare (insieme ad esperti e consulenti che abbiano però, a loro volta, vissuto realmente concrete esperienze aziendali) azioni e progetti (che siano di innovazione, di inclusione, di ascolto e coinvolgimento e di formazione, etc) “collegati e coerenti fra loro”. Progetti e attività dedicate alle persone che siano in armonia con la propria cultura aziendale, la propria storia, il proprio business, stando molto attenti a leggere e a comprendere “il grado di sostenibilità/di tenuta“ delle iniziative che si lanciano rispetto al grado di innovazione ed evoluzione che l’azienda nel suo complesso può sostenere.

In questa profonda evoluzione a cui stiamo assistendo, l’impressione è che anche il ruolo dei business leader dovrà necessariamente evolversi, non limitandosi alla supervisione del conto economico dell’azienda, ma diventando veri e propri motivatori, nonché attenti custodi della salute, della sicurezza e del benessere dei propri collaboratori. A tuo avviso è corretta questa lettura?

La reputation aziendale è un tema in profonda evoluzione, sempre più collegato, oltre che ai servizi e ai prodotti, alle persone. La reputazione di un’azienda vive principalmente di due dimensioni: la reputazione interna e quella esterna. La reputazione esterna si alimenta della reputazione interna e così viceversa: la coerenza tra queste due dimensioni è un fattore determinante per i risultati aziendali. Se, per esempio, ci concentriamo sulla internal reputation allora è evidente come le persone che popolano l’azienda (dal business leader al collega neoassunto) siano dei potenti influencer interni ed esterni. Un ascolto continuo e attento di tutta la popolazione aziendale su tematiche centrali quali per esempio l’adesione alla strategia di business, i valori, il modello manageriale, la sicurezza e il benessere dei lavoratori risulta fondamentale e, se ben fatto, permette di:

  • avere un termometro aziendale su queste importanti tematiche;
  • individuare chi può rappresentare (internamente ed esternamente) al meglio valori, comportamenti, mission, prodotti e servizi. Penso quindi a una leadership diffusa la cui voce non sia solo quella dell’amministratore delegato o dei vertici ma di tutti coloro che con il proprio esempio possono dar voce all’azienda;
  • poter attivare azioni e progetti coerenti con i valori aziendali e le esigenze dei dipendenti per incrementare la reputazione aziendale e il senso di appartenenza.

C’è un tema che suscita sempre grande dibattito: le quote rosa. È notizia di qualche settimana fa il messaggio del sovrintendente e direttore artistico del Teatro alla Scala Meyer che ha dichiarato: “Voglio l’uguaglianza di genere, non con le quote rosa ma con un codice di genere”. E, ancora, ha proseguito dicendo: “Dobbiamo far capire alle giovani che se hanno talento, avranno una chance”. É arrivato il momento di cominciare a pensare al dopo quote rosa o a tuo avviso servono ancora?

Se si analizzano i dati del GLOBAL GENDER REPORT 2021 e altri fonti autorevoli, si legge che l’Italia è al 76esimo posto al livello mondiale, che il 4% dei CEO in Italia è donna e che su 101mila disoccupati a dicembre 2020, 99mila sono donne. Forse mi viene da pensare che le quote rosa siano purtroppo, ancora, “una medicina necessaria”: tutti auspichiamo di non averne necessità ma la strada per raccogliere risultati su larga scala richiede profondi cambiamenti e i cambiamenti profondi richiedono tempo, resilienza, consapevolezza dovendo agire su più livelli/dimensioni in contemporanea (sociale, culturale, aziendale, educativa). Le comunità aziendali hanno un ruolo fondamentale e possono contribuire grandemente in questo percorso di cambiamento, incidendo profondamente da un punto di vista sociale, economico e culturale, affiancando sul territorio le istituzioni, il mondo dello sport, il mondo associativo e quello scolastico. Lavorando insieme e “remando” tutti verso la stessa direzione.

Il tema della diversità è al centro del dibattito, ma la sensazione è che oltre agli interventi concreti in enti e imprese sia necessaria una forte operazione educativa che parta fin dalla giovane età, magari dalle scuole. Secondo te come si educa alla diversità?

Anche qui, come per lo smart working, proporrei un punto di vista diverso e andrei oltre. Io non parlerei di educare alla diversità ma educare al rispetto dell’unicità. Il concetto di diversità racchiude implicitamente un concetto che non amo particolarmente: “se c’è qualcuno che è diverso, allora vuol dire che è diverso da un modello riconosciuto?” Perché se io educo ad accettare il diverso, presumo che ci sia un qualcosa/qualcuno che diverso non è… e quindi un modello a cui tendere. Ecco, invece io educherei alla unicità. Unicità della persona. E da lì partirei.

Perché la diversità, anzi diciamo pure l’unicità, è un valore e come può trasformarsi anche in un valore economico?

È riscontrato da alcuni studi che chi attua politiche inclusive in azienda (anche alla luce delle riflessioni fatte prima) raggiunge un aumento della brand awareness e del fatturato, una fidelizzazione del cliente, una minore incidenza degli infortuni sul lavoro e in generale una maggiore crescita aziendale. Ovvio che il ritorno sugli investimenti di politiche di inclusione è un ritorno che si calcola spesso nel medio periodo, ma non è sempre così, perché se per esempio attuiamo in azienda azioni concrete di “inclusività” avremo già riscontri immediati in termini di attrazione e retention di giovani talenti sempre più sensibili, attenti e vicini a questi valori.

Si parla giustamente di differenze di genere, ma in un’impresa è fondamentale saper gestire anche le differenze generazionali. La forza lavoro attuale, infatti, è spesso composta da quattro generazioni. Come si può colmare il divario e far funzionare al meglio le relazioni intergenerazionali?

Il tema “generazionale” è un tema centrale in azienda che si collega direttamente a concetti molto concreti come sopravvivenza e competitività sul mercato, innovazione, salvaguardia del proprio know-how, benessere delle persone e occupazione. Solo la convivenza di più generazioni garantisce la competitività, l’innovazione, la salvaguardia del know-how e il benessere sul territorio di appartenenza. Per garantire tutto questo è indispensabile disegnare politiche di gestione delle risorse umane attente al bisogno e alle esigenze di tutta la popolazione aziendale, clusterizzate per “momenti di vita professionale”, progettando programmi ad hoc quali: reverse mentoring (per garantire lo scambio di competenze tecniche e manageriali tra generazioni), pacchetti di welfare in linea con le esigenze “generazionali”, programmi di alfabetizzazione digitale per i più senior, programmi di tutorship per i più giovani dove far comprendere loro che il valore del passato (e della storia) si deve integrare con il valore dell’innovazione. L’inclusività di genere, di generazioni, di culture, oltre ad essere un valore “etico” è una necessità aziendale per generare profitto, innovazione, benessere.

Come cambia la comunicazione interna nell’azienda in un contesto così in forte evoluzione?

La comunicazione interna è già cambiata radicalmente negli ultimi anni. Ha subito una profonda mutazione quest’anno a causa della pandemia ed evolverà ancora e rapidamente nei prossimi mesi. Da Contenitore di informazioni a mio modo di vedere deve e dovrà sempre di più diventare:

  • Leva strategica per il Board e i Vertici Aziendali;
  • Asse portante per le attività di change management.

Ma per essere una leva strategica risulta fondamentale che l’azienda rifletta su alcuni aspetti: dove allocare organizzativamente questa funzione, quali nuove competenze sono necessarie all’interno della comunicazione (oramai credo sempre più multidisciplinari), che tipo di collaborazione/ interazione creare tra comunicazione interna e Direzione Risorse Umane. Un aspetto molto importante è il commitment e la partecipazione dei Vertici ai piani e alle iniziative di comunicazione interna: per stabilire e mantenere un contatto franco, sincero e continuo con tutta la comunità dei propri dipendenti. In sintesi, in questo panorama per certi versi disordinato, frenetico e reattivo, quello che consiglio alle aziende in tema di change management è di avere un approccio mirato, selettivo, sistemico e sostenibile: azioni selettive e mirate ma concrete e coerenti muovendosi con velocità, ma limitando la reattività. Less is more.

A cura di Stefano Rudilosso