Esperta di riforme istituzionali e cooperazione allo sviluppo, Elizabeth De Benedetti ha ricoperto il ruolo di consulente ad alto livello in diversi Paesi a rischio di instabilità, dall’Afghanistan alla Sierra Leone, collaborando con governi e agenzie internazionali. Dal 2019 è consulente della Asian Development Bank con sede a Manila, nelle Filippine.
Può introdurci brevemente la sua esperienza in Italia e poi all’estero?
Sono cresciuta a Cernobbio ma sono stata ‘esportata’ relativamente presto: ho frequentato il liceo a Parigi perché mio padre si è trasferito lì per scelta lavorativa. In Francia mi sono laureata in Comunicazione e poi ho conseguito un master in Marketing e sviluppo aziendale.
Come è riuscita a trovare il suo primo lavoro all’estero?
Nell’agosto del 2003 lavoravo a Parigi come Investor Relations Manager per la società di videogiochi Ubisoft, con un amico sono andata a Kabul ad aiutare un’organizzazione non governativa che stava lavorando a un settimanale femminile finanziato dalla Comunità europea. Dovevo restare tre settimane…sono tornata nel 2016.
Cosa l’ha spinta a rimanere in Afghanistan?
Sono passata da un ambiente di lavoro tutto virtuale al mondo vero: ho capito che era finito un capitolo della mia vita e mi sono detta “questo è un posto vero”. Kabul nel 2003 era un microcosmo per gli expat. Ho avuto l’occasione di conoscere il portavoce di Hamid Karzai (che l’anno successivo diventò il primo Presidente eletto dell’Afghanistan moderno). Mi ha offerto un lavoro nel gabinetto del Presidente per sviluppare un progetto di comunicazione tra il governo e i cittadini. Non ho esitato ad accettare. Non che le difficoltà fossero poche. Nel 2003, in Afghanistan non c’era l’elettricità, non che ce ne sia tanta adesso… e tanto meno i cellulari. Le poche comunicazioni erano via telefono satellitare, che però il governo afghano non si poteva permettere. E quindi le informazioni dalle province più remote o arrivavano tramite i militari della coalizione, o tre giorni dopo… Ma c’era un tale entusiasmo, gli afghani erano tutti così speranzosi, pieni di fiducia per il futuro e così accoglienti. Questa voglia di fare, di cambiare, di riformare e migliorare il quotidiano mi ha completamente coinvolta. Per i tredici anni successivi ho sempre lavorato con il governo afghano. Ho affiancato diversi ministri occupandomi di sviluppo istituzionale. Nel 2007 mi fu proposto di collaborare ad un progetto finanziato dalla Banca Mondiale per trasformare l’allora società elettrica statale in una corporation – sempre di proprietà dello Stato afghano – ma con caratteristiche commerciali. Prima del 2009, a Kabul l’elettricità c’era ogni due o tre giorni e per poche ore al giorno. È stato un progetto estremamente complicato da una mancanza assoluta di sistemi tecnici di monitoraggio della rete gestionale –e non parlo di software, ovviamente– e da un livello di corruzione spaventoso. Ma in pochi anni siamo riusciti a garantire una fornitura 24 ore su 24 almeno a Kabul, e a trasformare una società in perdita in un’azienda performante: è stato un lavoro estenuante ma fantastico e di cui vado molto fiera ancora oggi. Lasciata l’elettricità funzionante, sono passata a dirigere un progetto al Ministero dei Lavori Pubblici nel 2013 finanziato dal Governo britannico e implementato da UNOPS, l’Ufficio delle Nazioni Unite per i servizi e i progetti. Con un team di esperti abbiamo riformato il dipartimento della manutenzione stradale. Abbiamo introdotto nuovi sistemi e, tra le altre cose, sostenuto con specifici corsi di formazione un progetto finanziato dell’esercito italiano per la prevenzione valanghe sul passo del Salang. Il Salang è il tunnel più alto del mondo, a circa 3000 mt., costruito dai russi negli anni ’50 e punto strategico di comunicazione tra il nord e il sud del Paese.
Dopo l’Afghanistan non si è fermata…
Chiuso il progetto al Ministero dei lavori pubblici a Kabul, UNOPS mi ha proposto il coordinamento di un progetto di energie e risorse rinnovabili in Sierra Leone. Dopo molti anni in Asia Centrale, ho pensato che l’Africa fosse una destinazione interessante. Ho trovato un mondo completamente diverso. Il Paese conta meno di 8 milioni di abitanti e al Ministero dell’Energia lavorano 50 persone. In Afghanistan vivono più di 35 milioni di persone e al Ministero ne lavoravano 6mila! Ma a parte ciò, devo ammettere che in Africa mi sono entusiasmata meno. Il progetto era innovativo ed impegnativo con collaboratori abbastanza preparati ma penso di aver sofferto una sorta di senso di colpa. Guardando la povertà, la mancanza di un servizio sanitario ed educativo serio, l’inadeguatezza dell’amministrazione e la mancanza dello stato di diritto, vedevo solo i danni che fin dall’epoca coloniale abbiamo causato all’intero continente e alla sua struttura socio-culturale. Danni profondissimi. Penso, inoltre, di essere arrivata ‘satura’ di corruzione. Il più grosso male delle nostre società. Nel 2018 sono quindi ritornata in Asia e sono andata in Iraq, che all’epoca era appena stato dichiarato liberato dal gruppo terroristico Daesh, forse più conosciuto come ISIS (Islamic State of Iraq and Syria). A Mosul e dintorni era tutto da ricostruire: strade, rete elettrica, rete idrica… Ho partecipato al progetto finanziato con un prestito all’Iraq di 500 milioni di Euro dal Governo tedesco, nel ruolo di esperto istituzionale senior per implementare la governance del progetto con l’agenzia irachena per la ricostruzione. Il progetto continua tuttora ma non l’ho seguito interamente, perché a metà del 2019 mi è stato proposto di integrare un nuovo team dell’Asian Development Bank, la banca multilaterale asiatica per lo sviluppo regionale. Questo mio nuovo progetto consiste nello sviluppare un metodo di implementazione dei progetti per i Paesi classificati fragili o in conflitto. Le risorse economiche sono ovviamente fondamentali per le riforme. E se queste sono pensate nel contesto, adatte per i sistemi e le capacità locali (le best practices importate raramente funzionano) e impostate nel modo giusto, allora le riforme sono possibili e anche sostenibili. Ora mi occupo di strategia. Dopo anni di lavoro operativo mi è parsa una bella opportunità. Mi interessava molto capire come e se è possibile finanziare i progetti in modo diverso, affinché il loro impatto sia inclusivo e sostenibile.
Ha incontrato difficoltà particolari in questi Paesi?
Le difficoltà sono soggettive, quello che a molti può sembrare difficoltà o magari coraggio per me è quotidianità. Mi spiego: Kabul si trova a 2000 metri di altitudine e il clima è continentale… in inverno la temperatura scende a -20°C e, i primi tempi, la mia unica fonte di riscaldamento era una stufetta a legna. La scelta è o dormi o ti riscaldi. Nel mio primo inverno a Kabul, in camera c’erano -2°C e i tubi dell’acqua congelati: i primi giorni ti copri con qualsiasi cosa e ti lavi molto poco… poi ci si abitua e organizza. La mancanza di libertà, che oggi sperimentiamo tutti con il lockdown, è per me routine. Per lavorare in Afghanistan o in Iraq bisogna convivere con una libertà limitatissima. Limitata non solo dal buon senso ma soprattutto dalle norme di sicurezza. Non è immediato, ma poi ci si adatta. A parte le difficoltà quotidiane e un mondo del lavoro ovviamente diversissimo e non facilissimo, i miei tredici anni in Afghanistan sono stati favolosi, ho amato il mio lavoro, le persone che ho incontrato, i luoghi che ho visitato. E le brutte esperienze degli amici persi rendono i ricordi più forti ed indelebili.
Che opinione hanno i suoi colleghi dell’Italia?
Gli italiani sono molto più apprezzati individualmente che come popolo: chiunque ha il classico amico incontrato una volta in Italia con cui è rimasto in contatto. Ovviamente i cliché esistono ovunque: calcio, pizza, vino… Ricordo che il corrispondente del Time Magazine mi chiese come facevano i carabinieri italiani ad essere tutti belli eleganti ed indossare sempre gli occhiali da sole, di giorno e di sera! Battute a parte, il problema degli italiani all’estero è che non c’è un “Sistema Paese” alle spalle. Mi spiego, se io da italiana sono brava, lo sono per quello che so e che faccio, ossia sono io come individuo a guadagnarmi riconoscenza e rispettabilità nel mio ruolo. Mentre, ad esempio, un americano ha un notevole Sistema Paese alle spalle: conta per il peso politico del suo governo, conta per i finanziamenti, conta per la potenza del suo esercito, conta per quel che rappresenta che è molto più di se stesso… Un consulente americano – e uso il maschile ovviamente come termine generico – può anche non essere bravo, poiché a una valutazione sui risultati, i suoi risultati saranno sempre maggiori. Sfortunatamente mi è capitato più di una volta di vedere ministri tenersi consulenti non proprio bravi pur di non avere a che fare con le lamentele dell’Ambasciata US o dell’Agenzia americana per lo sviluppo, USAID. E questo vale per gli anglosassoni (britannici, australiani,…) ma anche per i tedeschi… Constato sfortunatamente che l’Italia conta poco all’estero. Sarà un ambasciatore o un funzionario (maschile sempre solo come termine generico) capace, visionario e volenteroso a mettere l’Italia ai tavoli importanti. Nel mondo dello sviluppo, l’Italia non finanzia progetti importanti, non ha cause che la identificano, anzi, spesso sono le ONG italiane come Emergency o Intersos ad essere più conosciute dell’Agenzia della Cooperazione allo Sviluppo.
Se potesse rientrare stabilmente in Italia, in quale campo vorrebbe operare?
Sinceramente, se dovessi tornare, mi piacerebbe continuare a fare ciò che faccio. Riformare inclusivamente e sostenibilmente, a partire dal Comune di Cernobbio! Le “cose” pubbliche da mettere a posto non mi sembrano poche. Corruzione, parità di genere e la continua delega al privato di ciò che il pubblico non può fare, anziché mettere a posto il pubblico, mi sembrano tutte cose che potrei continuare a fare anche qui. Ma poi ci sono la Libia, lo Yemen…
Nelle sue esperienze all’estero, ha vissuto episodi di gender inequality?
Assolutamente sì! Conosce qualche donna che le può dire il contrario? In UNOPS – e sono le Nazioni Unite – su 15 capi-progetto ero l’unica donna, il capo-progetto con più esperienza in Afghanistan ma la meno pagata. Mi è capitato in quasi tutte le organizzazioni internazionali nei vari Paesi in cui ho lavorato. In Afghanistan la presenza femminile è molto ridotta, anche se ora la situazione sta migliorando: al Ministero dei Lavori Pubblici, su 3500 impiegati ci saranno state un centinaio di donne, di cui solo due ingegneri. Ho anche partecipato a riunioni con 80 colleghi in cui ero l’unica donna. Come per tutte le minoranze, per farsi riconoscere bisogna lavorare molto di più, essere molto più bravi e preparati. Poi, superata quella barriera, le difficoltà diminuiscono. Ma per farsi trattare alla pari, in qualunque contesto, quando si è donna bisogna guadagnarselo, perché non è la normalità. Il che è assurdo, quando si pensa che la metà della popolazione sulla terra è femmina.
Quale atteggiamento bisogna avere per affrontare esperienze così importanti?
Non mi sono mai posta questa domanda: ho sempre fatto quello che mi piaceva, interessava e che ritenevo giusto. Non so dire se serva più la passione o la determinazione. Quando ero a Kabul, negli uffici ministeriali non mi sono mai coperta la testa, non ne vedevo la necessità e non volevo dare un esempio fuorviante alle mie, poche, colleghe afghane. Non è facile ma non ho mai sentito il mio genere come uno svantaggio, cioè lo svantaggio l’ho solo subìto ma non me lo sono creato. Anni fa mi pesava molto meno assistere a discriminazioni di genere, ora lo noto decisamente di più, forse anche grazie ai media e ai molti movimenti attuali e lo ritengo un’ingiustizia immane. Ai vertici della Asian Development Bank, una realtà internazionale in cui ci occupiamo di sviluppo e di gender equality, non ci sono donne. È inaccettabile, io introdurrei anche l’obbligo di turnazione del Presidente del Consiglio italiano. La mentalità è difficile da cambiare… Eppure, le donne sono davvero il motore del cambiamento, nei Paesi sviluppati e nei Paesi in via di sviluppo.
Cosa ne pensa della situazione attuale nel mondo dello sviluppo?
Le politiche di sviluppo sono short sighted, mancano di visione a lungo termine e sono sempre legate alle congiunture politiche, che non sono mai stabili. Nemmeno nelle dittature. I prossimi anni saranno difficili: ci sono meno soldi per lo sviluppo e gli interessi nazionali vengono al tavolo. La Gran Bretagna è stato il primo tra i Paesi del G7 ad aderire al target delle Nazioni Unite di devolvere lo 0,7% del PIL allo sviluppo, facendolo diventare legge nel 2015. A inizio mandato, Boris Johnson ha abbassato la cifra allo 0,5% e forse scenderà anche di più, con conseguenze gravissime sui fondi. L’Agenzia dello Sviluppo è stata fusa con il Ministero degli Affari esteri ed economici… Negli Stati Uniti invece, su decisione del Presidente Biden, l’Agenzia dello Sviluppo americano ora siede nel National Security Council, a rimarcare che la cooperazione è un presupposto per la sicurezza nazionale. Quindi, con meno fondi, molti progetti in tutti i settori andranno a rilento o saranno chiusi. Le conseguenze non solo sono disastrose sull’immediato nel Paese dove si svolge l’attività. A lungo termine, lo saranno anche nei Paesi limitrofi e nei Paesi finanziatori. Come per l’effetto di una valanga che fa danni a monte ma soprattutto a valle. Occuparsi di sviluppo non si riduce alla formula “aiutiamoli a casa loro”: lo sviluppo serve a tutti, significa creare un’economia, porre le basi per dar vita a un tessuto commerciale, a delle attività produttive e quindi anche a mercati supplementari. E soprattutto a creare popolazioni più educate e capaci, quindi meno nomadi. Per la lotta al Covid-19 (circa 100 milioni di malati e 2 milioni di morti, ndr) sono stati spesi e/o investiti 27 trilioni di dollari, quando esistono anche altre minacce come la malaria (229 milioni di casi nel 2019 e oltre 400mila vittime, soprattutto bambini – dati OMS, ndr) ma soprattutto il cambiamento climatico: è evidente che nella logica dei Paesi sviluppati c’è qualcosa che non va.
A cura di Erica Premoli