Carlo Bonomi, Presidente di Confindustria da maggio 2020, è imprenditore nel settore biomedicale, Presidente di MedTech Spa e Sidam Srl, Presidente dei CdA di Ocean Srl e Marsupium Srl. È inoltre Presidente di Fiera Milano SpA, membro del CdA dell’Università Bocconi, di Dulevo International SpA e Consigliere indipendente di Springrowth SGR SpA. Attivo in Confindustria sin dalla sua partecipazione al Movimento dei Giovani imprenditori, è stato componente degli organi direttivi della confederazione sia a livello territoriale sia a livello nazionale, ricoprendo in particolare la carica di Presidente del Gruppo Tecnico per il Fisco dal 2016 al 2020 e di Presidente di Assolombarda dal 2017 al 2020. Eletto presidente di Confindustria nel momento più complesso dal dopoguerra, nel pieno della pandemia Covid 19, Bonomi non si è lasciato intimorire dallo stato di emergenza e ha interpretato da subito il suo mandato con lo spirito del “civil servant”, come ha indicato il giorno della sua elezione ufficiale. Proprio nell’ottica di servire il Paese, il giorno dell’Assemblea generale che si è svolta a Roma il 29 settembre, il Presidente Bonomi ha richiamato il Governo e tutte le forze politiche ed economiche del Paese ad avere coraggio e visione del futuro.
Presidente Bonomi, ha iniziato il suo mandato da sei mesi, il semestre più difficile della storia dal dopoguerra. C’è un obiettivo che, nonostante tutte queste difficoltà, è soddisfatto di aver raggiunto?
Sarò e saremo soddisfatti come imprenditori quando saranno messi in campo interventi e riforme serie che approfittino di questa drammatica frenata del Paese per uscire finalmente da 25 anni di produttività stagnante, bassa crescita, scarsa partecipazione al mercato del lavoro e un reddito pro capite che oggi è tornato indietro di 26 anni. Lavoriamo per questo obiettivo, fiduciosi nella forza delle nostre imprese che ha sostenuto l’Italia in ogni grande crisi e con il contributo di milioni di lavoratori italiani. La fiducia e la determinazione ci sono tutte. La soddisfazione verrà quando constateremo che il metodo che chiediamo sin da febbraio – concentrarci sulle vere priorità della ripresa e non pensare solo a rincorrere l’emergenza della pandemia – sarà adottato dall’Italia pubblica e da tutti gli attori sociali. L’impegno deve essere comune.
In questo periodo, probabilmente a ragione, i mezzi di informazione stanno orientando quasi completamente il dibattito sul Covid e sulle conseguenze. Così, però, si corre il rischio di non progettare più il futuro. Vuole ricordarci i temi che dobbiamo mettere nelle agende degli imprenditori per i prossimi anni?
L’Italia non doveva sprecare i 7 mesi che abbiamo alle spalle. Non lo doveva fare sulle misure di prevenzione e diagnostica sanitaria. E non lo doveva fare sull’economia. Invece, ci troviamo nel pieno di una prevedibilissima seconda ondata di Covid, che si è diffusa aggressivamente in tutto il Paese. Quanto all’economia, la legge di bilancio che avrà tempi di discussione in Parlamento gravemente compressi per il ritardo con cui è arrivata, è particolarmente condizionata dai temi dell’emergenza e, salvo alcuni interventi, che le imprese avevano chiesto, le misure di lungo periodo per la crescita sono deboli. E sull’uso del Recovery Fund non è stata neanche costituita una cabina di regia che pur era stata annunciata. I nodi delle priorità e dei progetti che comporranno il Piano nazionale dovranno essere sciolti in poche settimane e non sappiamo come. Eppure, la Commissione Europea ha dato indicazioni precise sulle priorità su cui le misure devono incentrarsi, la sostenibilità sociale, ambientale e la competitività delle imprese, sia sulla metodologia con cui devono essere varate le riforme di struttura nel welfare, mercato del lavoro, PA e giustizia. In Italia troppi credono che i trasferimenti e i prestiti ci siano dovuti. Non è così. O si tratta di interventi e riforme vere con quantificazioni precise delle risorse e degli effetti attesi, oppure le risorse non arriveranno. Ora serve in poche settimane uno sforzo straordinario. Perché il rilancio passa per le imprese e non consentire alle imprese di valutare insieme priorità e misure sarebbe un errore epocale.
Nella sua relazione pronunciata in occasione dell’Assemblea pubblica dello scorso 29 settembre ha richiamato l’attenzione alla mancanza di visione che caratterizza il nostro Paese da troppo tempo. Qual è la visione che manca?
A mancare è la consapevolezza che da 25 anni di bassa crescita si esce adottando riforme profonde con effetti mirati al lungo periodo. Basta sussidi senza obiettivi precisi, mal coordinati tra loro. Per riagganciare la crescita abbiamo bisogno di rilanciare gli investimenti, di supportare la digitalizzazione del sistema produttivo che è un driver di crescita delle imprese in tutto il mondo e non possiamo rimanere indietro, e abbiamo bisogno di riforme. In particolare, abbiamo bisogno di una riforma profonda degli ammortizzatori sociali volta alla formazione e all’occupabilità, abbandonando l’illusione di mantenere il lavoro dov’era e com’era. Abbiamo bisogno di politiche attive del lavoro, basate sulle APL, estrapolandole dal Reddito di Cittadinanza che ora pure Tridico ammette che non serve a trovare lavoro. Di misure per la transizione energetica ed ecologica non velleitarie ma tarate sulla disponibilità delle tecnologie alternative, sulla realtà delle imprese e dei consumi italiani. E di una sterzata generale a favore di giovani e donne, le vere vittime di questi ultimi decenni. Una sterzata non fatta di bonus, ma di riforme del sistema della formazione pubblica, della sostenibilità familiare e parentale, e di una previdenza non più a favore dei prepensionamenti elettorali. Ecco cosa significa avere una visione alta.
In più riprese si è rivolto direttamente a chi ci governa chiedendo, non di essere folle, come lo sono gli imprenditori quando scommettono e rischiano su un’idea di impresa, ma solo di avere coraggio per il futuro, di avere il coraggio di prendere decisioni coraggiose per i nostri figli e per tutti noi. Quali sono le decisioni coraggiose che si aspetta?
Almeno tre. Non perdere più tempo. Non pensare solo a beghe di maggioranza, turni elettorali e prossime nomine. E capire fino in fondo che l’occasione del Recovery Fund non si ripeterà, e come tutte le sfide senza paracadute va affrontata con il massimo della serietà e preparazione possibile. Tra Next Generation UE, acquisti straordinari di titoli BCE, sospensione del Patto di stabilità sul deficit e fondi UE ordinari e riassegnati, si tratta di risorse nell’ordine di grandezza dei 400 miliardi di euro. Non è mai capitato, non ci ricapiterà più, e sono a tempo. O vinciamo la sfida, o ci costringeremo ad un inarrestabile declino. Per noi è una questione che viene prima delle prossime elezioni.
Andando sul pratico, uno dei problemi che affligge da tempo immemore il nostro Paese si chiama burocrazia. Qual è il nodo da sciogliere?
Quello dei tempi e quello dei modi. Non ci serve solo Industria 4.0, ma una PA 4.0, una giustizia 4.0, una scuola 4.0. La PA non può continuare a dare al Paese produttività negativa. Se la sente il Governo di definire criteri di valutazione di produttività per business unit e individuali nella PA centrale e periferica a tutti i livelli, da introdurre nei prossimi contratti pubblici da rinnovare e scaduti da anni? È possibile immaginare di introdurre criteri di valutazione delle performance di chi guida gli uffici giudiziari, anche in ragione dei tempi della giustizia? Come pensa di fare il Governo sugli investimenti infrastrutturali che annuncia, quando per lavori oltre i 100 milioni il tempo medio di realizzazione è in media di almeno 15 anni, e abbiamo dedicato gli ultimi anni a rimodulare incessantemente il codice degli appalti con quali esiti?
A fine agosto lei ha alzato la voce dicendo che mancavano 400 decreti attuativi senza i quali le misure anticrisi varate dal Governo erano ancora al palo, con grave nocumento per le imprese e i lavoratori. Sono trascorsi più di 3 mesi da allora: quanti decreti attuativi mancano ancora all’appello?
Il conto lo ha rifatto Openpolis. Sui complessivi 304 decreti attuativi, ne mancano ancora all’appello 196. Il numero parla da solo. Uno Stato che non riesce a scaricare a terra le sue misure è una tigre di carta.
È ancora nella memoria di tutti la parola “sussidistan” che ha pronunciato per la prima volta alla sua Assemblea. Cosa criticava e come bisogna riformare nell’ambito dei cosiddetti sussidi?
La critica viene da una questione di metodo, e da una di principio. Certo che anche in Italia come altrove servivano sostegni a chi era colpito dal lockdown. Il metodo era decisivo perché quegli aiuti fossero efficaci, cioè arrivassero presto ai beneficiari. Lo facemmo subito presente al Governo, altrove per esempio grandi Paesi hanno usato con successo l’equivalente della nostra Agenzia delle Entrate, che di ogni contribuente sa tutto. Invece il Governo ci ha messo sei mesi a capirlo. Ha dato sostegni alla liquidità delle imprese dimenticando che se la garanzia pubblica era all’80 o anche al 90%, le banche dovevano comunque svolgere un’istruttoria sul merito di credito. Quanto alla Cig Covid, all’inizio il Governo l’ha assimilata alla Cig in deroga, intermediata dalle Regioni. Altro tempo perso, e in tantissimi casi sono state le imprese a dover anticipare la Cig ai lavoratori. Quanto al principio, è presto detto. Alla politica piacciono i sussidi a tempo scegliendo discrezionalmente nel breve a chi darli. Noi preferiamo misure strutturali che guardino al futuro, a crescita e occupabilità. Costano meno, ma inducono e insegnano a pescare, non distribuiscono pochi pesci credendo di moltiplicarli.
Lei ha da subito avuto il coraggio di dire quello che molti pensano ma non dicono: continuare a protrarre per decreto il divieto dei licenziamenti è un rimedio che rischia di avere conseguenze ben peggiori del danno. Qual è la sua posizione in merito?
L’esperienza degli altri Paesi europei lo dimostra. Nessuno ha adottato il divieto di licenziamento per legge esteso a tutti i settori economici. La Grecia è l’unico che l’ha fatto, ma per i soli settori colpiti a fondo dal lockdown. Altri hanno distinto le imprese che ricevevano aiuti anti Covid, da chi invece usava gli ammortizzatori ordinari. Avendo esteso il divieto a tutti, la Banca d’Italia ci ha recentemente detto che abbiamo sì evitato 600mila licenziamenti, ma centotrentamila ci sono stati comunque e in ogni caso 500mila sarebbero stati licenziamenti ordinari per ragioni economiche di ristrutturazione non dovute al Covid. Invece, grazie al blocco e allo stop alle ristrutturazioni, a fine agosto 2020 mancava il 35% dei nuovi contratti alla stessa data del 2019, col bel risultato che a fine 2020 potrebbero mancarne oltre 2 milioni sui 7,3 milioni del 2019. Come si vede, i numeri dicono che il blocco ha sortito risultati opposti alle attese di chi l’ha varato. Il blocco dei licenziamenti con la possibilità di utilizzare solo la Cig Covid, mentre si continua a pagare la Cig ordinaria, è un mix esplosivo di oneri a carico delle imprese; il Governo sembra aver iniziato a comprenderlo.
Restando sul terreno delle relazioni industriali, in risposta alle accuse che i leader sindacali hanno rivolto a Confindustria di non volere i contratti, ha detto chiaramente che la più importante associazione italiana degli imprenditori i contratti li vuole sottoscrivere e rinnovare, ma li vuole “rivoluzionari”. Cosa intende?
Le associazioni di Confindustria i contratti li rinnovano eccome. Come si è visto nella sanità privata, nella gomma, nella plastica, nelle tlc. L’accusa dei sindacati è stata smentita dai fatti. Confindustria tiene la barra con fermezza su una questione di fondo, però. Se non c’è inflazione e i margini delle imprese sono a picco, noi i soldi li vogliamo dare ma devono andare preferenzialmente sui pilastri trasformativi: produttività, sanità integrativa, formazione. Va reintrodotto l’assegno di ricollocazione per garantire la ricollocazione delle persone disoccupate o coinvolte in situazioni di crisi con risvolti occupazionali. Sono 4 sfide per integrare dal basso il welfare statale che boccheggia. Non possiamo certo tornare agli anni Settanta, a considerare il salario una variabile indipendente che portò negli anni a una crisi gravissima e a inflazione a doppia cifra oltre che alla perdita di competitività.
In tutti i suoi interventi pubblici o privati non ha mai mancato di porre la massima attenzione su giovani e donne. Il nostro Paese su questi temi le appare ancora molto indietro?
Sì. La politica considera da quarant’anni la scuola come una questione che riguarda chi ci lavora e chi va assunto, e non per chi la frequenta. La previdenza – ancor più con Quota 100 – è un furto ai più giovani. Quelli che oltretutto dovranno pagare e restituire le rate dei prestiti del Recovery Fund. Quanto alle donne, il nostro welfare è ostile a famiglia e conciliazione dei tempi di cura parentale, in troppe parti d’Italia l’offerta di asili nido pubblici non supera il 20-30% delle necessità. Su giovani e donne la politica dovrebbe provare una doppia vergogna.
Cosa ne pensa del reddito di cittadinanza?
È da tenere solo la parte che serve al contrasto della povertà. Le politiche attive del lavoro sono tutt’altra cosa, hanno bisogno di altre competenze e metriche.
La recente elezione di Biden può avere, a suo avviso, una ricaduta positiva per i rapporti economici tra USA ed Europa?
Il presidente l’hanno scelto gli americani. Noi, imprese di un Paese trasformatore che da decenni si regge innanzitutto grazie all’export, nel mondo globalizzato e, grazie alla crescente partecipazione di migliaia e migliaia di imprese italiane, nelle catene globali del valore, siamo naturalmente interessati a un ritorno degli USA verso il multilateralismo nel commercio mondiale. Vedremo se su questo Biden abbandonerà l’agenda muscolare di Trump, che ha portato a una frenata del commercio mondiale che ha danneggiato l’Europa intera.
Com’è il rapporto con le Associazioni confindustriali di Francia e Germania? Si riescono a portare avanti questioni comuni a tutte le imprese d’Europa?
Il rapporto è ottimo, ho voluto rafforzarlo da subito e abbiamo preso numerose posizioni congiunte in questi mesi, con tedeschi, olandesi e francesi. La sfida europea nella competizione globale passa per l’industria e le nuove tecnologie, su questo le valutazioni sono assolutamente comuni. Ma è molto importante che, per premere in Europa su buone scelte nella traiettoria post Covid, le imprese si muovano in maniera coordinata. Chi crede a sfide chiuse nei confini nazionali dei singoli Paesi europei non ha capito nulla di come funziona il mondo. O crede e spera che si torni ad autarchie nazionaliste. È vero il contrario. Per confrontarsi con potenze globali come Cina e Usa, serve l’Europa. Più integrazione europea e non meno.
Ha nel cuore un obiettivo che, se raggiunto, riterrà di aver dato un senso al suo mandato di Presidente?
Io non devo perseguire obiettivi personali. L’obiettivo è svolgere al meglio il mandato che così tanti mi hanno conferito, per il bene delle imprese italiane e del Paese. E poi diciamola tutta: l’Italia è così sfiduciata e scettica che le vere sfide bisogna pensare a vincerle senza dichiararle in anticipo. Perché nella stortura della prassi pubblica italiana il massimo esercizio del potere è il potere di veto.
A cura di Stefano Rudilosso