Tra le affermazioni più temute da Francesco Mutti, la frase “Tanto è solo pomodoro” occupa sicuramente i primi posti. L’imprenditore emiliano, Amministratore Delegato di Mutti SpA, è fermamente convinto che la materia prima vada rispettata e che la banalizzazione sia un forte ostacolo al miglioramento e ai processi evolutivi. Del resto, la passione e la cura che da oltre un secolo l’azienda di famiglia dimostra verso uno dei capisaldi della cultura culinaria italiana, sono parte integrante del successo di Mutti in Italia e all’estero. Ospite del webinar dedicato alla Crescita dimensionale, organizzato da Confindustria Como e Confindustria Lecco e Sondrio in partnership con The European House – Ambrosetti nell’ambito del progetto Io ci sarò! Prendiamoci cura del nostro futuro, insieme, Francesco Mutti ha risposto alle domande del giornalista Ferruccio De Bortoli, raccontando ai tanti imprenditori collegati online genesi, valori e sfide di una delle realtà simbolo della Food Valley.
LA STORIA
“Il nostro settore è una sorta di protoindustria: la mia famiglia ha cominciato a occuparsi di trasformazione del pomodoro nel 1899 e all’epoca, nel solo parmense, le aziende di questo tipo erano più di un centinaio. Abbiamo sempre avuto una forte spinta verso la qualità e l’innovazione: nel 1951 abbiamo lanciato il concentrato di pomodoro nel tubetto di alluminio e nel 1971, insieme alle macchine per produrla, abbiamo creato la polpa di pomodoro, un prodotto nuovo che è subito diventato un nostro elemento distintivo.
Tra la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, il settore è entrato in una crisi profonda derivante dalla riduzione dei costi dovuta ad una crescente automazione e dal tentativo di abbassare il costo della materia prima, con ricadute negative sulla qualità del prodotto e sugli agricoltori. Quando sono arrivato in azienda a metà anni Novanta, il fatturato era di circa 11 milioni di euro e non avevamo una visione strategica: l’esecuzione prevaleva sulla visione di insieme. Il settore contava 350 aziende a livello nazionale ma era alquanto povero e faceva fatica ad affrontare i mercati oltralpe, con rare eccezioni come Cirio. Ho subito cercato di lavorare su una visione a lungo termine, senza dimenticare l’importanza della materia prima e della filiera. Essere integrati ha dei costi ma rappresenta un grande valore aggiunto, perché è un gioco cooperativo con ritorni più che positivi.
Abbiamo lavorato molto sull’internazionalizzazione e oggi il nostro fatturato si attesta intorno ai 450 milioni di euro. La crescita media dell’azienda è sempre a doppia cifra, anche se il 2020 è stato un anno decisamente atipico. Siamo leader in Europa, i nostri prodotti sono presenti in Francia, Australia, USA ma produciamo solo in Italia, dove abbiamo 3 stabilimenti e operiamo in due bacini, nel parmense e nella Capitanata (il territorio della Puglia settentrionale, ndr)”
L’INTERVISTA
La crescita dimensionale avviene anche per gesti coraggiosi e discontinuità. Quali sono stati per lei?
Il salto dimensionale di un’azienda passa dalla capacità dell’imprenditore di effettuare una prima innovazione nella propria testa, circondandosi di persone capaci di fargli vedere scenari più ampi. L’innovazione va fatta inizialmente a livello di mentalità, poi si può passare all’innovazione di prodotto, cominciando a lavorare con la filiera. La nostra salsa di pomodoro datterino è frutto di un profondo lavoro ‘a monte’, per ottenere dopo anni risultati ‘a valle’. Tendiamo sempre al risultato immediato ma dobbiamo ricordare che anche la gestazione è importante. Come avviene in natura, bisogna saper attendere: più si raggiunge la corretta maturazione, più si migliora sotto molteplici aspetti. InstaFactory invece è un innovativo impianto produttivo mobile che si colloca nei terreni scelti, accorciando le distanze tra agricoltura e fabbrica, tra il tempo di raccolta e la lavorazione. Catturiamo così il gusto e il profumo del pomodoro direttamente sul campo, a tempo zero.
Ha mai avuto la tentazione di diversificare?
Rimanere concentrati su un unico prodotto senza dubbio aumenta il rischio di impresa ma non credo sia questo il problema. Statisticamente, il primo motivo di sparizione delle aziende è legato a una sorta di inedia, un’incapacità progressiva di affrontare i mercati, di sostenere l’innovazione. Ricordiamo che il successo di un’innovazione è basso, capita di fare diversi investimenti che non vanno a termine e di farne uno che deve essere in grado di ripagarti di tutti gli altri. Lo sviluppo va inteso non solo come crescita volumetrica ma anche come maggiore attrattività, capacità di innovare e investire, di creare dosi incrementali di valore aggiunto e di difese che potremmo definire ‘immunitarie’.
Come avete impostato la crescita, per linee interne o acquisizioni?
La nostra è stata sempre una crescita verso l’esterno per linee interne, abbiamo acquisito solo due stabilimenti. Penso che le acquisizioni portino a un interessante salto nell’immediato ma poi si verifica un inevitabile rallentamento, lo slancio iniziale passa e l’operazione va “digerita”. Di solito chi acquisisce impone una cultura su chi viene inglobato mentre la crescita interna è più gestibile, implica meno variabili legate alla conflittualità da controllare. È una scelta che va comunque finanziata.
La diversità culturale all’interno di un’azienda è un valore o un pericolo?
L’omogeneità culturale consente maggiore rapidità perché tutti parlano la stessa lingua ma rappresenta anche un impoverimento per la generazione di valore, di idee e di arricchimento che si riverberano nella cultura aziendale. Più sei aperto, più ti è facile attrarre, comprendere le persone e dare loro feedback.
Come si può convincere un giovane a lavorare per voi?
Qualche anno fa era molto più difficile, le selezioni erano uno stillicidio e ogni investimento era considerato un mezzo rischio. Oggi siamo fortemente attrattivi nei confronti dei giovani talenti e per il 2021 sono programmate moltissime assunzioni.
Come è andato quest’anno?
Il 2020 è stato un anno particolare in cui si sono verificate delle anomalie. Durante il lockdown abbiamo registrato crescite esponenziali e ci stiamo chiedendo cosa rimarrà, quali saranno le ripercussioni nei prossimi mesi. Il nostro settore sperimenta una lieve deflazione dei consumi (+8%): cosa accadrà quando il Covid sparirà? Le abitudini dei consumatori e gli stili di vita cambieranno, anche sulla scia dello smartworking?
Se un imprenditore diventa più grande, rischia di vedere meno alcuni pericoli o difetti? Se sì, quali?
Superare la paura di non vederli è il primo step. Voler entrare troppo nel dettaglio è a mio avviso un limite, perché se voglio occuparmi della crescita dell’azienda, devo accollarmi dei rischi e devo scegliere di delegare alle persone giuste. Vivo anche momenti di grande ansia, in cui mi chiedo ‘Chi me l’ha fatto fare?’… ma fa parte del ruolo, l’imprenditore è un risk-taker per definizione.
Si è chiesto perché in Italia non abbiamo giganti come Danone, …?
C’è sicuramente un tema dimensionale da considerare. L’agroalimentare italiano è rappresentato da circa 55mila aziende. Di queste, solo il 7% fattura più di 30 milioni di euro e viene definito un ‘gigante’. Siamo abituati a scale diverse rispetto a quelle adottate all’estero. Il 52% delle esportazioni alimentari italiane è fatto dallo 0,2% di aziende. La maggior parte delle imprese ha meno di 9 addetti: chi si occupa di strategia, innovazione, evoluzione di prodotto? I Paesi con una cultura alimentare molto più povera della nostra sono dovuti diventare grandi per forza. Inoltre lo Stato non agevola la crescita dimensionale e permane una diffusa mentalità “anticapitalista” che non aiuta, anzi nel medio e lungo termine impoverisce la ricchezza del Paese e la sua capacità di fare da traino.
I vostri campi assomigliano a dei veri e propri giardini: credo che questa immagine di sostenibilità rappresenti una forma di comunicazione molto efficace…
Se lo sono, bisogna ringraziare i nostri agricoltori, che svolgono un lavoro eccellente. Ogni anno investiamo diversi milioni di euro per migliorare la qualità della materia prima e cerchiamo sempre di valorizzare le 700 famiglie che lavorano con noi, dando loro un giusto compenso e riconoscendone l’impegno.
A cura di Erica Premoli