SARA MARELLI, VIROLOGA COMASCA D’ESPORTAZIONE

Sara Marelli è una comasca d’esportazione affascinata dalla virologia. Da anni vive in Inghilterra per approfondire le sue ricerche sul virus HIV

Ci può raccontare brevemente la sua esperienza di comasca d’esportazione?

Dopo avere conseguito il diploma di Liceo Scientifico al Fermi di Cantù ho studiato Biotecnologie Mediche al San Raffaele di Milano, sia in triennale che in specialistica, un percorso di studi che mi ha appassionato alla ricerca e permesso di comprendere i sistemi biologici nei loro più intimi dettagli. Sono sempre stata affascinata dalla virologia, dalla natura parassitaria delle particelle virali che stanno al confine tra il vivente e il non-vivente, che ci infettano e portano a patologie, ma che non possono esistere senza l’ospite umano. Durante l’internato per mia tesi specialistica ho lavorato per un anno su HIV, virus dell’AIDS, al San Raffaele di Milano. L’ambiente della ricerca spinge alla mobilità internazionale, ragione che mi ha portato a scegliere un dottorato di ricerca all’estero, in cui potessi approfondire la comprensione dei meccanismi di replicazione virale. Ero attratta dall’idea di perfezionare il mio uso della lingua inglese, perché è la lingua della comunicazione scientifica, ed insieme di fare una buona ricerca con possibilità di divulgarla. Ho avuto il privilegio e l’onore di essere ammessa per un dottorato di ricerca all’università londinese UCL (University College London), dove ho conseguito un dottorato in Cancer Biology, studiando i meccanismi tramite i quali alcuni virus possono portare a tumorigenesi, ossia lo sviluppo di cancro. Lavoro ora all’università di Cambridge, dove sto portando a termine studi correlati al mio dottorato e approfondendo una linea di ricerca su HIV.

In quali Paesi ha vissuto negli ultimi anni? Che opinione ne ha?

Ho trascorso gli ultimi 6 anni in Inghilterra, tra Londra e Cambridge. L’impatto iniziale con Londra non è stato affatto semplice, è una città molto grande in cui è facile “perdersi”. Sono cresciuta a Cantù, e ho frequentato l’università a Milano. Nonostante Milano non sia una città piccola è tutto un po’ più “vicino” e meno spersonalizzato di Londra. La cultura italiana è molto più calorosa e si fa meno fatica ad interloquire con le persone, ti senti di meno “un numero”. Cambridge, invece, è molto diversa rispetto a Londra: le persone sono molto più amichevoli, mi sembra un po’ una bolla nella realtà inglese: una cittadina accademica piena di personaggi altamente qualificati, la cui competenza può intimidire i più impavidi, circondata da campagne favolose in cui è piacevolissimo dilettarsi nel ciclismo amatoriale. Non lo nascondo: mi mancano tantissimo le montagne, aprire le finestre e avere quel senso di protezione che ci offrono le Alpi, di cui non ci rendiamo conto fino a quando non lo perdiamo!

Ha incontrato qualche difficoltà all’inizio?

Non è facile essere sradicanti completamente da casa e mettere la propria vita in una valigia per partire, da soli, verso una città dove ti aspetta solo una camera d’ostello condivisa con altre quattro persone. Niente amici, niente famiglia a portata di tiro, niente di tutto quello a cui sei abituato, un telefono che a malapena riesce a fare delle telefonate (perché io lo smartphone non lo avevo!) e Skype scricchiolante dentro a Starbucks per chiamare i genitori. Una lingua che pensi di capire alla perfezione (dopo tutti questi anni di studi), e alla prima telefonata per prenotare una visita ad una camera da affittare ti rendi conto di non essere stato in grado di capire una sola parola se non il “hello” iniziale. Una stanzetta affittata a prezzo d’oro, con spifferi e niente doppi vetri (perché qua sono una novità del nuovo millennio). Il sole pallido e debole che d’inverno sorge alle 9 e tramonta alle 15.00. La solitudine del non avere amici vicini con cui uscire a “fare l’aperitivo” o semplicemente prendersi un caffè. La cultura popolare inglese per cui uscire a bere è la norma, e “mangiare qualcosa mentre bevi significa barare”. Non è stato facile, ma ciò che non ti uccide fortifica, ora so di essere in grado di adattarmi a culture diverse. Se emigrassi di nuovo in un Paese diverso non avrebbe lo stesso impatto, so a cosa andrei incontro. Cosa è questa, se non libertà?

Come è riuscita a trovare il suo primo lavoro all’estero?

Mi sono proposta per due programmi di dottorato a Londra, sono stata selezionata per le interviste per entrambi e ho ottenuto una posizione. Ripensandoci e sentendo storie di altri amici che hanno cercato di fare la stessa cosa, è stato fin troppo facile e ancora non me ne capacito: Londra volevo e Londra ho avuto. Complice forse un po’ di fortuna e sicuramente l’ottima preparazione data dall’eccellente Università che ho frequentato. Non smetterò mai di ringraziare l’ormai celeberrimo Prof. Burioni e le sue fantastiche lezioni di virologia medica, che mi hanno permesso di rispondere alla maggior parte delle domande che mi sono state fatte a quell’intervista!

Che differenza ha riscontrato nel mondo del lavoro in Italia e in Inghilterra?

La più grande differenza che ho trovato è la quantità di soldi che girano nel campo della ricerca. Qua si fa più in fretta a comprare i reagenti prima di pensare per 3 volte agli esperimenti da fare, mentre in Italia era tutto più ponderato e misurato. Devo però dire che io in Italia ero in un istituto di eccellenza internazionale, e che la quantità di soldi che vengono investiti nella ricerca dipende da laboratorio a laboratorio più che da nazione a nazione. Anche qua ci sono laboratori più “poveri” dove i reagenti sono centellinati. I docenti e la maggior parte dei ricercatori con cui ho lavorato in Italia hanno avuto formazioni internazionali, la preparazione è paragonabile anche se l’esperienza varia da individuo a individuo, come è naturale che sia. I contratti sono sempre a breve termine anche in Inghilterra, il contratto a tempo indeterminato non è una caratteristica primaria del lavoro accademico in nessun angolo del mondo.

Che atteggiamento bisognerebbe avere per affrontare un’esperienza così importante?

Credo di essere stata abbastanza naïve nelle mie scelte iniziali, avevo 25 anni appena compiuti ed ero piena di entusiasmo e di voglia di fare. Questo mi ha dato tanta energia per superare le difficoltà iniziali, quindi mi sentirei di dire che chi vuole partire deve avere tanta (tanta!!) grinta. La fortuna o sfortuna che io ho avuto è che, volendo rimanere nell’ambito accademico, non potevo lasciare tutto e ricominciare da un’altra parte – sarebbe stato un marchio nero sul CV il fatto di lasciare un programma di dottorato e non sarei sicuramente riuscita a trovarne un altro – mi è stato detto che la cosa più difficile di un dottorato è arrivare alla fine. È vero.

Le sue radici si riflettono in qualche modo nella sua attività professionale?

Forse? Nella ricerca serve creatività e rigore, gli italiani sono molto bravi nel primo punto e un po’ meno nel secondo. Il rigore si può imparare e la creatività forse un po’ meno?

Lei risiede a Londra: la Brexit ha modificato o sta modificando il suo modo di vivere e lavorare?

No, per ora no, come se nulla fosse successo. In effetti la Brexit vera non è ancora entrata in vigore. Vedremo quando sarà il momento cosa succederà al mio contratto e se dovrò avere un visto per rimanere. Devo dire che è stato incredibile prendere l’aereo 6 anni fa, passare la dogana e avere il permesso di andare a vivere in un’altra parte del mondo senza burocrazia da risolvere. Mi sentivo parte di una comunità Europea che aveva voglia di condividere. Ora negli aeroporti io potrò passare sotto alla bandiera blu con le stelline quando torno in Italia, i miei amici inglesi saranno sotto “other passports”. È un po’ triste.

Cosa ne pensa della situazione economica italiana?

Non sono un’economista e non me la sento di commentare su cose che non conosco. Le problematiche sono troppo complesse e io sono una biologa. Quello che mi fa molto male è la deriva di ignoranza che sta prendendo la politica italiana, che continuo a non condividere. Credo che l’Italia si meriti di meglio (e non lo sa).

Ha mai considerato di tornare in Italia? Se sì, cosa vorrebbe fare?

Sì, più di una volta, ma è ancora troppo presto. Il mio lavoro è altamente specializzato e sono sicura che ci sarebbe spazio per giovani ricercatori che vogliono tornare a lavorare in università e portare un’esperienza maturata all’estero che è diversa da quello che in Italia è già presente. Servono le condizioni adatte e per i prossimi 5-7 anni sicuramente dovrò rimanere dove sono o comunque fuori dal confine – inoltre il futuro dipenderà molto dalle politiche italiane sulla ricerca, che non mi sembra siano esattamente rosee di recente… Que será, será!

Cosa pensano i suoi colleghi dell’Italia?

Non è semplice rispondere a questa domanda. La visione generale è che i paesi del sud Europa sono più caldi e gioviali, che la vita viene vissuta in maniera diversa. Tendo a credere che l’opinione che si ha di una nazione dipenda molto dalle persone che si hanno incontrato che vengono da quella nazione. Di italiani all’estero ce ne sono tantissimi, forse ci sono più italiani fuori dall’Italia che in Italia. In generale veniamo considerati come un popolo amichevole e gioviale, a cui piace mangiare e parlare a lungo del cibo, fare lunghe feste e chiacchierare. Ci piace vestirci bene e ci piace il buon vino. La nostra lingua a loro suona molto musicale e si divertono a sentirci chiacchierare tra di noi anche se a volte le discussioni più accese o piccanti possono sembrare aggressive – mentre noi stiamo solo scherzando. Ci piace il caldo, ci piace il caffè, la pizza non deve avere ananas, e la pasta con il ketchup e il pollo per noi è una bestemmia (già, per loro no…). La cosa forse più divertente che mi sono sentita dire è che Como è talmente a nord che è come se fossi tedesca. Forse un po’ di verità c’è?

Quali sono i consigli che darebbe a un giovane in procinto di scegliere una possibile vita all’estero?

Ogni situazione è diversa e uguale solo a se stessa, quindi è difficile dare consigli a largo spettro. Quello che posso dire è che io trovo l’“esperienza all’estero” molto formativa a livello personale più che professionale. Richiede tanta forza, pochi pregiudizi, pochi vizi e tanta energia. Il mondo è pieno di opportunità, seguite la vostra strada e quello che vi dice l’istinto e non lasciatevi abbattere dal primo vento. Buona fortuna!

A cura di Serena Zanfrini – imprenditrice